Il mio nonno ungherese parlava poco.
Credo che osservasse molto, in compenso, dietro i suoi occhiali, con occhi verdissimi e severi, ma traditi dal mezzo sorriso beffardo che riservava agli esseri umani.
Quello pieno, e intimo, era merce dedicata a Pancio, il suo cocker spaniel che mio padre, da ragazzo, pensò un giorno di portare a casa, a sorpresa.
Quando parlava però, riusciva ad essere incisivo come pochi.
Un po’ per quell’accento che solo un ebreo ungherese che vive a Firenze può avere, un po’ per la sua capacità di sottolineare le parole, e le sillabe importanti di quelle stesse parole.
La vecchiaia è ripuGNAnte, diceva sempre.
Nonostante fosse ancora piuttosto attivo, lavorava ancora nel suo studio dentistico, sempre con Pancio sotto la sedia ( erano gli anni 80, si poteva tutto) e nonostante, soprattutto, la guerra, i lutti, il campo di lavoro in cui era stato prigioniero in Russia e da cui si dicesse fosse stato liberato da un ufficiale a cui aveva salvato la vita, erano la vecchiaia, gli acciacchi, i dolori, il non-poter-più, ad essere ripugnanti.
Mai nulla uscì dalla sua bocca sull’olocausto.
Mai.
Se il dolore non si racconta, esce comunque. Trova una via, un rivolo, una parola definitiva per affacciarsi e farsi almeno indovinare.
Ripugnante
E poi si curi, lanciando una pallina, infinite volte, seduti su un divano.
