Il respiro usato

Non di sole scorie è fatto un respiro già respirato.
Ma di anima in rarefazione, di condensa, di soffio, mentre dormiamo naso contro naso. Inspiro il tuo espiro, vivo di un respiro usato, che è già stato vita, che è già stato battito.
Ma è il mio motore. Aria scaldata che mi faccio bastare pur di spiare i tuoi occhi chiusi.
Come ora, come ogni giorno, quando ti aspetto.
Il mio respiro usato è un vento sottile di fiato, passato attraverso un corpo il tuo corpo, il tuo sonno forse il tuo sogno che diventa il mio.
La parte migliore l’ho pur sempre ricevuta in dono.

Sei

Sei riposo dopo una corsa, sei respiro che finalmente rallenta
Fiamma che infine pensa a se stessa e si regala brace, fumo sparso dono esclusivo a chi sta accanto
Sei penombra ad occhio ferito di luce, che non sempre si vuole accecarsi.
Sei panchina in un lungo viale, orizzonte contemplato e non scorso. Sei miele sciolto lentamente nel the, giorno vicino al suo meritato congedo, socchiudere gli occhi, quell’istante impagabile di membra rilasciate, accolte, indifese.
Sei cancello aperto su giardini per ogni occhio, ogni cuore. Esclusiva accoglienza, fiducia viva in quiescenza

Il tacco empatico


Non mettevo i tacchi da trilioni di anni. Certamente pre gravidanza, ma venerdì sera, perbacco, chiamava il tacco. E sia.
Larghino, modesto, casto. Devo camminare. Sarò disinvolta e finalmente sembrerò una donna. O giù di lì.
Sopravvalutando come sempre parti del mio corpo che invece era meglio lasciar sopite nelle mie pantofole azzurre puffose con le pecorelle, mi sono incamminata.
Mi godo il centro.
Ah che bello.
La gente, le vetrine. Tutto corso Garibaldi, tanto che vuoi che sia via Guasco, è un attimo.
All’altezza della Ghiara già cammino come Lazzaro appena ricevuto il comando, chiappe strette e labbro inferiore mozzicato che il tassista lì parcheggiato si starà ancora chiedendo se era un goffo ammiccamento o se ero sotto acido. O se mi scappava fortissimo la pipì. Sai le anziane.
Mi fermo nella ingenua convinzione di dare un briciolo di sollievo alle estremità, maledicendo la genetica ( il secondo dito del piede è più lungo. Tocca. Sbatte. Si piega. Sembra una lumaca senza guscio è una cosa orrenda, dovrei andare in terapia solo per quello) Pregusto tuttavia il fatto che girato l’angolo sarò seduta. Dai. Manca poco.
Brava valerocchia.
Credici.
Si spalancano le porte del tram
(Si, autobus per i non reggiani).
Signò, dove sta l’ostello?
E mi ritrovo davanti una donna dall’età indefinita ma diciamo intorno ai 30,attorniata da sacchi della spazzatura gialli trasparenti, stracolmi (di ghisa, avrei poi scoperto), un trolley, sudore e fiatone.
In un motomix di autonegazione del dolore, masochismo da psichiatria profonda, nonsense e sopravvalutazione di forze ed essere una persona gentile, mentre sono una stronza che vi fa il dito medio in macchina se vi infilate prepotentemente davanti nella perpetua ed autorigenerante fila per Rivalta, ho cinguettato un “ci sto andando, andiamo insieme” arraffando senza esitazione i due porta ghisa travestiti da sempliciotti sacchetti porta oggettini vestitini cibini e che ne so.
Appena alzati, in cielo sono comparse le seguenti scritte in ordine di probabilità:
Lussazione spalle (entrambe,sì), gomiti, polsi.
Ipoglicemia severa immediata
Caduta con trauma facciale
Infarto
Embolia. Così
Perché un’embolia ci sta sempre.
Mentre mi ringraziava china sul suo UNICO TROLLEY CON LE ROTELLE anziché percularmi per quanto fossi cretina a essermi impossessata dei suoi bauli ricolmi di metallo pesante come se fossero il tesssoro di smiegol la turista ha iniziato invece a tossire come se dovesse espellere dalla bocca il demogorgone.
Butto un’occhiata sulle mie mani perfettamente in palette con le tendenze p/e 23 che vogliono il fucsia ovunque, le vene blu perfettamente a contrasto e sì cogliona, stai toccando una roba possibilmente infetta.
Le chiedo, SCUSANDOMI MA SA… se avesse mai per caso fortuitamemente il covid.
E quella, guardandomi con l’unica aria possibile da “ma che cazzo ne so io e poi anche fosse chissenefrega”, comunque mi rassicura: mai avuto.
Al che, con tre brevi pause nelle quali capisco che fare certe domande è come chiedere se fa la differenziata, paga regolarmente le tasse e chiede sempre lo scontrino, affronto i tre gradoni altri 3 metri e 20 cm dell’ostello e NON CONTENTA la accompagno al bar/reception. Devo avere un’espressione fresca e felice perché mi corre incontro il gestore chiedendomi se voglio una mano e come sto.
Eh, ormai.. rispondo con l’educazione der monnezza.
La ragazza con il trolley con la stessa sfacciataggine con cui portava i leggins che non pesavo esistessero nemmeno di quella taglia mi congeda come don Antonio del castello delle cerimonie e con lo stesso accento
“Che dii di mandenga sciend’ann d salud”, e scompare.
Corro in bagno a lavarmi accuratamente le mani, controllo le veschiche sanguinanti dei miei SECONDI DITI, asciugo via il grosso delle catinelle di sudore di cui sono impregnata dalla frangia stile acquazzone à paris e le ascelle stile workout con recupero attivo (cioè non ti fermi MAI per 50 minuti anche se ti faccio credere che gli esercizi a terra saranno allungamento e invece ti massacro di addominali) e via, sono pronta per iniziare finalmente la mia serata wow lacrimando a ogni passo come una madonna di civitavecchia qualsiasi.
In foto io che vedo arrivare la sfiga ma ancora non realizzo

R esisto

R esisto
R esisto come sono, come posso, come mi lasciano essere.
R esisto e mi sento salda, tra gente che va e viene, che mi sussurra o mi urla in faccia.
Salda in tempesta, salda in turbine di vento.
Divento di vento, R esisto e mi plasmo.
Gli attacchi li abbiamo respinti tutti.
Tutti?
Non me lo chiedo.
Le minacce fanno parte della natura piccina dell’umano, della capricciosa sorte in dote con il Dna, dei giorni implacabili che si sommano come complessi megalitici o traballanti pietre appoggiate l’una sull’altra.
R esisto come ognuno può e compie, come mi insegna tutto il vibrante attorno.
R esisto come sono, come mi sento e come raccontano.
R esisto perché è l’unico modo in cui so vivere.
Placida e affannata
Che non sa come fa.

Alla fine del sentiero

Alla fine del sentiero non conterò i passi, non il tempo trascorso, nè la distanza.
Non saranno i numeri ad abitarmi.
Sarà l’abbraccio tra i miei occhi e il cielo.
Sarò scomposta e ricreata di niente, eco del vento, risposta perduta in tutto questo verde.
Per poi scoprire che il sentiero non finisce mai.

Ricordi

Per i miei donatori, a un mese dal retrapianto
Per ogni vita inciampata ed evaporata, per ogni volta aspettata e pregata, per te, che non te lo aspettavi, e hai lasciato la scena più bella, sul più bello.
Per me, che non me lo aspettavo nemmeno io e per entrambi, per tutti i morti che abbiamo avuto negli occhi nelle ultime settimane
Per il tuo respiro infinito che non mi era mai stato permesso
Per la mia pena, per il vuoto nero e senza fine che ne è il prezzo.
Per chi ha deciso che un tuo pezzo di carne si rivolgesse in vita e per tutti noi, dannati ad amare questa vita
Grazie
Per ogni dolore immolato a noi stessi, per ogni fatica e scoramento, miei donatori, sarete in ogni muscolo, in ogni speranza
Per ogni vostro amato io sopporto ogni indicibile supplizio, che arrivi ai loro cuori come miele profumato e che le nostre mani si intreccino nel vento, ogni volta che lo sentiremo necessario

Abitarmi

Torna ad abitarmi
C’è odore di stantio da quando te ne sei andato e la luce che filtra dalle fessure gioca con la polvere. La fa danzare senza spettatori, la fa girare senza musica nella fissità di un abbandono che sembra un esilio, una deportazione.
Torna a far scorrere l’acqua
Non m’ importa delle stoviglie sporche, non troveremo i panni puliti.
Mi basterà il tuo passaggio distratto, oppure saranno ore pigre in un pomeriggio anonimo, perso in un calendario feroce, inosservato come una bici nel traffico.
Torna a chiamarmi per le stanze, a parlottare da solo, a inveire contro i rumori della strada.
Torna a difendere il tuo feudale tesoro interiore contro la bruttura della vita veloce.
Torna a promettermi un amore lento e poi invece rincorrimi e mordi il tempo che ci trascina, che ci inganna.
Torna ad abitarmi mescolando il nostro disordine, il tavolo disadorno spavaldo delle sue macchie, l’anta rotta che ci richiama al dovere mai ascoltato, la nostra anta anarchica, le tende che non hanno mai preteso di nascondere niente.
Offrici a ogni sguardo che voglia godere di noi
Invidiarci
Maledirci
Ma torna
Non ci sono chiavi, non ci sono codici, nè mai ci saranno suoni che ti annunceranno.

La risacca

La risacca del nostro legame arriva inesorabile e muta, in un tempo dissolvente, in un tempo inaspettato.
Arriva mentre ascolti le tue ragioni.
E mentre io, cieca, osservo le mie sole emozioni
La risacca del rapporto tra te e me porta promesse di tempo da inventare.
Che si immaginano facili, prevedibili rincorse.
Restituzioni.
Ritorni e passioni.
Ma natura e umano calpestano terre diverse
Se così non fosse saremmo volatili e vulnerabili
Persi nei nostri soli bisogni
Urgenti e basici.
Terre contigue, solchi di passaggi.
Ali e braccia che obbediscono, entrambe, al vento.
Manto e pelle, piume e ossa.
Organi, cuori.
Pulpito, respiro.

Assolveteci

Assolvete
Quelli che credono alle proprie bugie
Sorridete agli impulsivi, agli entusiasti, ai perduti, agli smarriti.
Deridete piuttosto i certi, biasimate i retti di facciata, allontanate i gentili per calcolo, i giusti per contratto.
Assolveteci, noi migranti in affanno indientro nello stormo,
Che ci perdiamo nel cielo, che ci attardiamo a farci illuminare da luci deboli o infuocate.
Tornate a prenderci o lasciateci alla corrente impietosa.
Il cinismo è già nelle nostre ali, sappiamo che uno sguardo può condannarci.
Ma guarderemo lo stesso dritti il sole, o un campo rigoglioso di vermi, un ballo di vento.
Seguiamo la rotta che possiamo, non quella che sappiamo.

Stai lì

Prima mi stavo infilando questa collanina con il cuore.
Come il 90% dei monili che posseggo, me l’ha regalata Madre.
Ci stavo mettendo un po’ e ho pensato oh! Una volta messa non la tolgo più.
La lascio lì.
Non capita anche coi rapporti umani?
Ho investito così tanto, magari ti lascio lì.
Anche se non ti abbini più bene ai sentimenti, anche se ho cambiato stile, ho impiegato tempo, emozioni, risorse.
Stai lì.
Anche se non ti vedo nemmeno più, quando mi specchio.
Anche se a volte sei solo fastidiosa perché ti intrecci con altre nuove collanine.
Ma stai bene lì, in fondo.
Perché dovrei toglierti per poi riperdere altri preziosi minuti per indossarti di nuovo?
Hai il moschettone piccolo, sfuggente.
Resta lì.
Non ci faccio nemmeno più caso.