2 anni

Da qualunque punto lo si guardi, un trapianto è un evento enorme. Non solamente per  la vita e la morte che in quel lungo istante sono intrecciate, o per le famiglie che respirano tutta quella vita e quella morte tutte insieme, ma per ogni operatore sanitario coinvolto. Per lo sforzo, l’impegno inimmaginabile per tenere al mondo una persona.  Io, in questo caso.
Sono due anni, oggi, dal mio secondo trapianto bipolmonare.
Quasi sei anni e mezzo dal primo.
Oggi i polmoni che la mia gabbia toracica ha accolto come nido fragile ma tenace sono capaci di un respiro lungo. Mai così ampio.
Sono diventata qualcosa di impastato col sangue e con la luce, sono un’ombra luminosa  che cerca di ringraziare col fare.
Sono il perdono del mio fallibile.
Sono il tentativo di accogliere.
Sono il dolore che blocca e spinge, sono l’albero mosso dal vento.
Sono la luce che acceca, sono il placido affanno, sono te e me, insieme.
Sei polmoni, un cuore, due occhi e mani aperte.
Sono il passo e la sosta, la sete e la fonte, e per quanto ancora potrò, sarò lo sguardo al cielo, guardiana di quel pezzetto, unico e speciale, che mi vive sopra la testa.

Cespuglio

Come cespuglio spoglio
Ma traboccante di bacche
Non ospito nidi, i rami disordinati amano il cielo, invocano il pallore adatto del sole.
Le mie bacche amano la terra, che fango o secca che sia, resta sempre culla dei miei frutti.
Il mio contorno ama la nebbia che penetra ed evapora, con scorie nude che un giorno torneranno.
Osservo passi e voli
Sono immobile, ma il vento mi agita continuamente

La cava

Il suono dei miei passi sembra un frastuono, a quest’ora di notte.
Solo io per strada, a passo svelto come se fosse giorno, come se avessi meta.
Lo intravvedo per caso più avanti, a una trentina di metri.
L’asfalto lucido e la nebbia mi fanno esitare, socchiudo gli occhi, mi avvicino.
È lucido anche lui. Più piccolo di quel che credevo, o forse è la strada che è immersa rispetto a lui.
Mi accorgo di un flebile movimento, appena accennato, stanco.
Mi sembrano piccole convulsioni di una disperazione che cerca istintivamente di sopravvivere.
Mi inginocchio.
Non credo di poterlo toccare.
Mi fa tenerezza ma anche repulsione.
Non dovrebbe essere lì ma poi penso che forse sia l’unico posto sensato in cui stare ora.
Laddove era è tutto franato, non è sicuro ed è infestato da ogni male.
So esattamente come e quando è finito lì.
Indugio, lo fisso, lo indago per accertarmi che sia intatto e invece mi accorgo delle lacerazioni, ferite che ora non potrei sanare, nemmeno se chiamassi aiuto.
Mi rialzo.
Mi volto, mi stringo nella sciarpa, ricaccio le mani in tasca non prima di aver controllato, passandomi un mano sul petto, mentre mi allontano velocemente.
Non c’è battito.
Resta lucido, pulsante e raccapricciante proprio in mezzo alla via deserta.
Ti lascio a te stesso, cuore, senza remore e rimpianti.
Ora che so che posso vivere senza, ora che ti ho estirpato e lanciato in aria come una disgrazia ti lascio alle luci impietose di lampioni indifferenti, preda di copertoni distratti o di cani randagi dal fiuto allenato.
Cammino, osservo, parlo e respiro e al tuo posto una cava senza confini ti farà riecheggiare in ogni luogo.
Con te, ma senza di te

Che io sia

Dio

Induriscimi il cuore

Strappamelo dal petto

E se non puoi, o non vuoi

Incarcera le sue membra in calce nera di odio cieco

Nè amore nè pietà nè tenerezza siano accessibili

Che i visi le mani gli occhi io non veda, io non riconosca

Ma forse tu non sei che un’invenzionee come tutte le frottole tanto più potente quanto inesistente.

Il patto che la morte sarebbe stata mia è sciolto in mille arcobaleni che hai mandato per testare che il cuore, ancora, fosse pulsante.

E allora scienza, uomini feroci, aiutatemi

Che io sia maledetta

Popolo assonnato

Faccio parte da poco di quell’esercito seduto in macchina, alle 2 del mattino, dal volto stanco illuminato dal cellulare appoggiato sul volante, che attende.
Il popolo di quelli che vengono a prendere grappoli di adolescenti aspettano, chiusi in macchina. Silenzio e frastuono, pazienza e dirompenza.
Il popolo che attende e riporta a casa ragazze dalle risate a scoppio e infreddolite, stivali e top, microborse e macrounghie, minigonne e maxifelpe (ma no, niente felpe, a 17 gradi si sta in miniabito) e osserva. Il tempo in cui venivo qui è sgranato, confuso, io qui non esisto più.
Il trotto incerto sui tacchi fino alla macchina, non tacere mai, e in fondo non sapere bene come ci si sente, non identificare quella sensazione di vuoto a fine serata: è delusione o è solo il tempo che scappa?
Che fosse banalmente solo la seconda opzione mi è chiaro soprattutto ora, ora che è davvero scappato, tutto questo tempo.
Eppure adesso risuona fin qui “barbie girl”, orrenda allora, orrenda adesso.
Segue la notte vola.
Sembra uno scherzo.
Oppure è il tragicomico sunto del fatto che non siamo riusciti a dare ai ragazzi niente più che un brutto remix di quello che eravamo o peggio, una versione truccata di quello che anche noi speravamo. Abbiamo riciclato una vecchia trasgressione spacciandola per nuova ribellione quando obbediamo da sempre, e per sempre forse, a schemi già pensati, per noi e per loro.
Li vedo arrivare alla macchina traballando, questi ragazzi bellissimi, partire in tre o quattro sgommando e vi prego, penso, andate piano.
Qualche altro genitore fa la ronda per un parcheggio. Poi si arrende, accosta.
È un tripudio di 4 frecce.
Abbiamo tutti sonno.
Forse ci stiamo tutti domandando se non siamo troppo indulgenti, se non sia troppo tardi per la loro età, se anche noi, nella vita dei nostri figli siamo in attesa con le 4 frecce, funzionali e di passaggio.
Con la felpa e l’acqua in macchina ad aspettarle.
A dispiacerci un po’ per la musica di merda che fa loro violenza.
Ma ogni generazione si sa, si affranca con la musica e forse quella degli anni 90 era altrettanto povera.
Si merita più sonno, questo popolo dilenzioso di asserenti attendenti.
Sottopagati da un sorriso, o anche meno.
Dall’illusione di essere serviti una volta in più a proteggerli, a vederli felici, a ripararli.
O semplicemente a riportarli a casa.

Sei il mio spazio


In una processione di angoli stretti, sei il mio spazio.
In una moltitudine di anime anguste, sei il mio sconfinato.
Una prateria che balla col vento, impavida
Da distrazione a contemplazione è un salto che si fa a occhi chiusi per poi non temere la ferita del sole
Sei il mio spazio e di mio c’è solo la gratitudine perché il mio spazio è costriuto da osservazione e ascolto, è fatto dal tuo silenzio che amo e non fuggo, in cui posso acquietarmi ad ascoltare il respiro
Anche quello non è mio ma fatto ora della mia carne e delle mie ossa, e dell’aria che scelgo di abitare.
Sei il mio spazio senza barriere senza confini e senza cartelli, nessun monito mi è necessario per abbassare difese e idee, per scordare l’affanno che mi danno i giorni, le immagini soverchianti delle notti, il rumore ingiusto delle umane miserie.
Sei il mio spazio che è galassia di impalpabile pulviscolo di noi.
Quando non vogliamo esistere, quando preghiamo di essere dimenticati
Per il tempo di uno spazio

Cavalbianco

Ti avevo amato con un vento impossibile, Cavalbianco
Irraggiungibile nella tua semplicità
Ti ho adorato oggi, piccola Irlanda umile all’uscita del bosco.
Mi ero amata con obiettivi testardi e tempi da inseguire. Adoro il mio cammino senza mete e senza tempo, libero e umile, meditazione e silenzio.
In discesa, cauta per un ginocchio dolente, oggi mi sono scusata della mia lentezza con due ragazzi che aspettavano di salire.
Fai con calma, non abbiamo fretta.
E io, infarcita di abilismo almeno quanto di toast al formaggio che mi sparo al mattino, impaziente, egoriferita e imbarazzata per la mia goffaggine mi sono scusata maldestramente
“Sono uno sfacelo”.
SE ERI UNO SFACELO NON ERI QUI.
Ora.
Io credo moltissimo nel potere dei messaggi degli sconosciuti ( semicit.)
Ci vivo, ci medito, resto spiazzata per questi doni inaspettati.
Dopo essermi ammutolita per quanto mi sia sentita ingrata, preoccupata per cose stupide e inadeguata, ho sentito una gratitudine infinita.
Per la saggezza di quel ragazzo, per quanta verità, inconsapevole, mi aveva restituito. È vero: uno sfacelo non sta in mezzo ai monti. Non cammina, non respira.
Grazie Cavalbianco di avermi accolto, circondato ed esserti lasciato contemplare.
Ho molto da imparare.

Mani

Tenersi immobili
La spalla sotto la tua mano distratta
Solo per sentire il tuo respiro mentre dormi.
Le mani non cambiano
Possono crescere allungarsi allontanarsi
Ma l’intreccio, bambina mia, resta lì ad aspettarci

Sottopelle

Appena sottopelle.
È proprio lì che ti amo.
Non importa che sia lembo insicuro della clavicola o nervosa terra di avambraccio
Dove non osa sguardo e dove azzarda affiorare sangue
È proprio lì che ti amo
Dove potrei ferire ma accarezzo
Dove potrei ignorare ma vedo.
Dritta in pupille non mie mi riconosco un passo nuovo
Ho colori mai sperati e mi staglio, netta, in paesaggi nuovi.
Non perché tu mi abbia portata, barattando il mio stupore, ma perché li hai pensati e costruiti per me.

Albero

Lascio a voi
Zaini di grandine
Lascio temporale alle spalle
Lascio il confronto del mio passo con l’andare sicuro del falco.
Lascio ogni ambizione di fuga e mi faccio albero.
Coraggioso, solitario.
Chi l’ha detto che l’immobilità sia meno nobile del movimento?
Un albero non fa che svettare in alto, sin dal suo bucare il terreno.
Da germoglio a legno infine abbattuto, non ha mai perso un giorno di cielo.

Dalla traccia di 6 parole del bellissimo cammino letterario di Letterappenninica, appennino pistoiese