E cammino, cammino… Cammino sempre, appena riesco, appena posso. Cammino per la me immobile nel letto, appesa a un tubo di aria disinfettata. Cammino per la me che verrà e dovrà ripiegarsi ancora, rimettere l’anima in tasca, deprivata di questa libertà così sprecata. Cammino per gli sconosciuti immobili senza motivo e senza coscienza. Per chi non ha conosciuto riposo imposto ed è fisso nella sua posa. Cammino verso chi non mi ama. Cammino via dalla mia testa barocca, e la porto sempre con me. Pesante, urlante, invadente, inopportuna, divertente. La mia testa è la zia eccentrica col gomito un po’ alzato, colorata e imbarazzante, che urla la verità usando metafore creative, che seppellisce con una freddura, ma appellandoti “tesoro”. La mia testa in fuga, da raggiungere a piedi, eppure in cielo, in cerca d’aria e di nuvole, poi annoiata, a parlar a tutti, sempre, a sproposito, di cielo. (da Guardami adesso). E finalmente un giro impegnativo, almeno per me. da Rescadore al Battisti, sentiero 615, passando per il Passone, senza guardare le tabelle temporali, il dislivello, e nemmeno il sole che si è fatto sentire. Ho sentito le mie gambe, sempre più sicure. il mio respiro. Costante, fiero. ho sentito la mia gratitudine e la voglia di tornare a camminare, la ricerca della fatica, quando non pesa niente se non lo zaino pieno di banane e acqua. Grazie, come sempre, a chi mi accompagna
Equidistante Dai giorni neri e dal sole a picco. Sospesa. Tra un passo ed un altro. Salda nell’impronta appena lasciata, incerta nel frammento d’aria davanti a me. Si può vivere così, Rimpiangendo una felicità esaurita, O in esplorazione di tutti i fili che tireranno i miei sorrisi
Per i miei donatori, a un mese dal retrapianto Per ogni vita inciampata ed evaporata, per ogni volta aspettata e pregata, per te, che non te lo aspettavi, e hai lasciato la scena più bella, sul più bello.
Per me, che non me lo aspettavo nemmeno io e per entrambi, per tutti i morti che abbiamo avuto negli occhi nelle ultime settimane
Per il tuo respiro infinito che non mi era mai stato permesso Per la mia pena, per il vuoto nero e senza fine che ne è il prezzo. Per chi ha deciso che un tuo pezzo di carne si rivolgesse in vita e per tutti noi, dannati ad amare questa vita
Grazie Per ogni dolore immolato a noi stessi, per ogni fatica e scoramento, miei donatori, sarete in ogni muscolo, in ogni speranza
Per ogni vostro amato io sopporto ogni indicibile supplizio, che arrivi ai loro cuori come miele profumato e che le nostre mani si intreccino nel vento, ogni volta che lo sentiremo necessario
Ciao È un po ‘ che ti evito, in un misto di imbarazzo e senso di colpa, immotivato lo so, me lo ripetono fior di dottori e anche, in fondo, la mia coscienza che ogni tanto prende il microfono e fa un gorgheggio ma insomma..non è andata proprio come avessimo sperato.
Eravamo partiti alla grande, poi un grande inciampo, affrontato e superato insieme, e poi cose incredibili inventate e messe in pratica, soprattutto, io e te.
Tu dicevi che ero pazza io, io dicevo che era perché secondo me eri troppo giovane e sportivo e ho fatto tutte quelle cose da 20enni che insomma, a 44 e passa anni mi facevano sentire molto figa, altro che le influencer che alla mia età si sentono di combattere il patriarcato perché si fanno la blefaroplastica.
Però mi sento un pochino come quando si fa un incidente e la colpa sia tutta mia perché mi sono distratta e in effetti guidavo io, non c’è dubbio Tu te ne stavi addormentato nel mio torace.
Ogni tanto ti svegliavi e mettevi un po’ di musica ( e finché erano gli hot chili o i blink182 ok, ma quando ho iniziato ad ascoltare ghali o blanco era evidente che la radio la gestivi tu). Insomma ci dovremmo separare . Comunque.
Io non so stare sola, quello è evidente e onestamente spero di vivere ancora. Sì, anche per te. E quello che si dice in questi casi ed è banale è più che mai autentico: non ti dimenticherò mai. Ho sempre parlato poco di te, pubblicamente. Perché ho immaginato che la tua famiglia mi conoscesse e l’ho fatto per rispetto. Mi sembrava che ogni sillaba fosse troppo sporca, troppo inquinata o troppo stridente per il bianco sfolgorante che sei. Anche ora, si che letteralmente non respiro. Più.
Ma ogni giorno sei stato con me, amato, protetto, difeso, caro donatore. Da tutto, persino da una pandemia. Ci sarà sempre un fiore per te finché avrò il mio altare della gratitudine. Ora è un momento talmente difficile da non riuscire a raccontarlo, per quello faccio due cose: la scema, nei pochi istanti in cui è concesso, e la sperante.
Possiamo ancora farlo insieme, se ti va. In ogni caso, grazie per ogni cielo, montagna, passo, risata, follia, amore, speranza. Sei vissuto oltre la vita, e avevi ragione perché “è così bella anche quando è brutta” che non la voglio lasciare nemmeno io.
Non avrei mai pensato, prima del trapianto, di pubblicare foto come queste.
Ma ora che è tornato l’ossigeno, almeno durante l’allenamento, ho uno sguardo diverso. Che ho capito, è (quasi) l’unico che conta. Guardami adesso rivendicava una rinascita, un affrancamento proprio da questi odiati tubicini. Il fatto che io ora li veda come un mezzo per continuare ad allenarmi, e ne sia tutto sommato grata, lo devo a tutto ciò che è successo dopo il trapianto.
Lo devo a chi ha letto e apprezzato Guardami adesso scrivendomi un po’ della propria anima. Così come ho festeggiato il mio nuovo respiro, ora accolgo i suoi nuovi limiti, così nuovi eppure già conosciuti.
Non chiedetemi cosa è successo, non vi risponderò qui. Non perché improvvisamente presa da una ritrosia immotivata, ma perché so che ogni percorso è profondamente diverso e anche lo stesso nome, la stessa ferita patologica, su pazienti diversi si rimargina, o no, in modi diversissimi.
Io stessa ho sofferto di altre storie, altri epiloghi, forse senza mitivo che non fosse una profonda empatia, più che una pre – occupazione per il mio destino. Ringrazio chi capirà il senso di questo messaggio Chi non mi chiamerà guerriera. Chi continuerà a guardarmi per quella che sono, una scema nell’anima profondamente grata alla vita. Chi mi terrà vicino, anche a mezzo respiro. Che se non si espandono i polmoni il cuore se ne frega e si espande di più.
Ammettiamolo però: non è affatto facile. Non lo è per niente. Non è sempre resiliente, non propositivo. Essere attaccata a un guinzaglio o meglio a una fonte di vita per fare quasi ogni cosa è, credo, per la maggior parte delle persone, inimmaginabile. Però questa fonte di vita mi permette di essere qui e fare ancora qualcosa. Qualcosa di bello.
Se poi ci pensiamo bene abbiamo tante catene. Io nel momento in cui credevo di essere più libera ero legata al guizaglio dell’illusione. Attanagliata dal cappio dell’apparenza nella forma della dimostrazione anche agli altri, non solo a me stessa. Di quel guinzaglio mi sono liberata proprio grazie a questo. Qui ho deciso di mostrare la reazione, la possibilità. Ci sono anche la lagna, lo sconforto, la sconfitta, la delusione, lo smarrimento e un buio tanto buio che non si vede nemmeno fino in fondo. Soprattutto per risposte che non arrivano, o forse non ci sono.
Ma le sconfitte si somigliano tutte, per parafrasare male e capivolgere Tolstoj, mentre l’ ostinazione ha sempre una follia tutta sua.
È finita. Domenica si è concluso il progetto che mi ha tolto sonno, energie, pazienza e aspettative per mesi.
Il progetto che ha assorbito ogni cellula e che ha messo alla prova resistenza fisica e norale, amicizie, collaborazioni, tenuta psicologica.
Ma quanto mi ha dato. Conferme e sorprese. Come spesso ho detto, contituare a vole esserci ha significato grande consapevolezza: ogni passo è stata una faticosa conquista.
Mirko Dalle Mulle e Gabriel Zeni sono le Fragili rocce che hanno portato Aido sul twtto d’ Europa. Con la cordata dei supporters sono arrivati a Capanna.
Ma il mio inchino più umile e sentito, oltre a loro, va a tutte le fragili rocce che si sono allenate con sacrificio e passione e solo per uno sgarbo meteorologico non hanno raggiunto la vetta.
E a ben vedere, non è davvero importante. Antonella Tegoni , Samantha Ciurluini hanno dimostrato una tenacia e una determinazione che potrebbero spostare le montagne.
Voglio ringraziare tutti. In questa organizzazione difficile, a tante voci, che a volte ha pagato lo scotto dei malintesi, dei cali di entusiasmo, dei personalismi e della leggerezza ho scoperto le persone.
Curioso. Cerchi le montagne e scopri l’umanità più profonda e nuda che esista.
Un piacere e un onore collaborare ( perché nel volontariato giammai si debba usare il termine lavorare, alla faccia delle infinite riunioni zoom, mail, messaggi e vocali a volte all’ una di notte, altre alle 5 del mattino) con Francesca Boldreghini, direttore della comunicazione di Aido che ha sposato con entusiasmo il progetto e ha dedicato gran parte della sua essenza. Rosy Cicero e Lory Prinno ormai con me nel progetto Guardami adesso da un anno. Grandissima parte organizzativa e razionale di Rosy, senza di lei davvero l’impresa non avrebbe potuto essere. Anzitutto per molti allenamenti di noi #fragilirocce e per la scelta delle guide.
Alla mia, Davide Gallian, devo non solo il tentativo di domenica mattina, (siamo tornati indietro dopo poche centinaia di metri non solo per il mio passo ma per un dolore che anche post tachipirina era impossibile continuare a ignorare) ma anche la salita a Capanna Gnifetti.
Pur nella fatica e nella lentezza non mi sono mai sentita inadeguata, ma accolta e accompagnata con pazienza e ironia. E come mi ha confermato Mirko, sulla twrrazza della Gnifetti, ” per la prima volta un arrivo sorridente”.
Merito anche della meravigliosa dottoressa che ha avuto il coraggio di affiancarmi, Federica Muraca . Chi mi conosce sa quanto io possa essere in sfida con i medici. Con Federica è stata una traversata di fiducia e comprensione. Ci siamo fidate entrambe e ne abbiamo tratto grandi risate e giornate che credo non dimenticheremo. Un po’ a rassicurarci ( lei con grande maestria a scacciare paure, io per contrattare passi in più e barattare respiri). E il saturimetro è diventato oggetto di utile collaborazione e non terreno di scontro.
Orgogliosa di avere in squadra anche Luigi Vanoni, e Aldo Savoldelli e Gianluigi Dorelli del CeRiSM di Rovereto, partner scientifico che ci ha “studiato”.
Avevamo più medici, soccorritori e bombole di ossigeno noi che in tutta la catena del Monte Rosa.
Grazie a Luca Colli che ha coordinato i soccorritori della croce Rossa insieme a Marco Shackleton Masserini. Per scaramanzia ( ma mica tanto), emergenza e tranquillità di tutti, soprattutto di Madre😅 il mio corredo accanto a casco e imbrago era di ben 3 bombole di ossigeno da 5 kg, spesso negli zaini di Rosy, della guida, della mia dottoressa e di Francesco IlFra Ferretti che ringrazio per aver subito creduto nel progetto e aver portato un valore aggiunto importante. Un po’ in cordata con me, un po’ a supporto dei medici a controllo delle varie cordate dei fragili. AIDO Regione Piemonte presente nella persona di Cristina, che ci ha seguito e supportato in questi giorni nel frullatore. Grazie a Il Marco Minali e a Stefania, in supporto morale logistico ed emozionale da Alagna. Preziosi e rassicuranti, come tornare da mamma e papà. 😅 Questa mia salita, tutta questa enorme fatica la dedico certo, ai miei amori, alla mia cordata della vita, a Marco Menegus da cui parte tutto. Ma questo è stato il mio addio al ghiacciaio. A questo amatissimo ghiacciaio sicuramente. Quando sono, per la seconda volta, arrivata alla terrazza di Capanna gnifetti, dai pioli della scaletta che tanto, nelle foto, mi impressionava, ero felice. Pochi minuti dopo dal cellulare scoprivo che Irene, a cui avrei fatto dedicare la vetta ( e a cui è dedicata, per quello che può valere), se ne era andata. A 13 anni, in attesa di due polmoni che l’avrebbero portata ovunque, probabilmente. In quel momento, la sua incredibile mamma, in un pianto assurdo e surreale mi ha detto sai, Irene non voleva dirtelo ma diceva sempre : mamma ma cosa ci va a fare sul monte Rosa? Io quando avrò i polmoni voglio fare cose normali “. Ecco. Siamo riuscite a ridere, su quella terrazza che considero la più bella del mondo e che grazie a te, angelo sfanculatore impertinente, mi ha mostrato la via delle cose normali. A volte non basta una montagna di 4500 metri a farci sentire piccoli. Presi dalle sfide con noi stessi. Io per prima, inondata di supponenza travestita da umiltà a prender schiaffi di consapevolezza a ogni passo. Sono state le tue parole Irene, dette con la fatica degli alti flussi che volevo dimenticare e cancellare con la fatica dell’aria sottile, a riportarmi alla realtà, a farmi, finalmente, sentire piccola. Piccolissima. E allora Irene Non ti dedico le mie vette mancate, le imprese. Ti dedicherò le “cose normali”. Come l’abbraccio stretto alla tua incredibile mamma, alta come una montagna, Barbara Billo Goldoni .
…e sono venuta qui, per onorare un nome che sa solo il vento, ma che risuona in me ogni respiro.
Il tempo qui sulla Pietra di Bismantova è un tempo tutto suo.
Scorre, in un modo tutto suo.
Passato e presente si mescolano, le nuvole seguono le immagini della mente, minacciose o lievi, lontane, incredibilmente vicine, arrivano a corredo dei pensieri.
Se poi azzardi il silenzio, è un silenzio tutto suo.
I rumori da valle non sono abbastanza forti da arrivare quassù. Semplicemente, su questa piana c’è spazio solo per il tuo suono. L’unica prepotenza è quella di una coccinella che si posa sulla mano o gli echi degli uccelli.
E in quel preciso istante realizzi quanta potenza sprigioni la minuscola gola di un volatile rispetto a un trattore sbuffante e precario grande come un’unghia.
E quanto un ronzio di un’ape, o di una mosca, sia così presente alle orecchie.
Il mio passo, in montagna, è dettato dal mio respiro, è fatto dallo sguardo quasi sempre puntato alle rocce, ai piedi che mi precedono, con qualche pausa a testa alta, per essere inondata dalla luce e dell’orizzonte.
Il mio passo è fatto di gente che mi supera, quasi scusandosi, salvo poi voltarsi a guardare la mia fatica. Guardala adesso, la mia fatica, che è fatta di tutti i passi che mi hanno condotto fino qui, ma non è ancora abbastanza da togliermi la voglia di salire.
Il mio passo è fatto dalla pesantezza dei giorni ed è spinto dalle risate, degli stessi, identici giorni.
Il mio passo è fatto da un “insieme“, che in montagna è un concetto che si dilata e regala solitudine salvifica, consapevolezza e volontà, di adeguarsi o meno, al mio passo.
Il mio passo si trasforma in riflessione.
Anche questi pensieri ruvidi sono arrivati in salita, cadenzati con i conti che faccio ogni volta col mio respiro. I patti, i compromessi, i tradimenti.
Il mio passo lento, incerto, ostinato, osteggiato, riaffermato, tifato, tollerato, biasimato non lo cambierei, ora, con altri scarponi esperti.
Il mio passo è composto da piume e farfalle e voli leggeri e da massi inamovibili invisibili ai più.
Il mio passo soprattutto, restituisce.
Come una piccola onda generosa, quello che ho donato finora.
Per festeggiare i 3 anni e mezzo con i polmoni che sento così miei, ma che di fatto, ricordo ogni giorno, mi sono stati ceduti, sono tornata al cospetto del Professore.
Il Cusna, che per me era solo un nome fino a pochissimo tempo fa, una foto di una croce di ferro e sassi, a 2121 mt, dalle parti di Villa Minozzo, nell’amato appenninoreggiano.
Non sempre sono stata degna di raggiungerlo, ogni salita mi è sembrata infinita, sfiancante, eterna. Affrontata a testa bassa, ma ogni volta in cui ho alzato la testa, cielo e terra nel loro mix colorato mi hanno fatto sorridere. Sono lenta, in salita Nei cammini, nei gruppi, sono sempre la “guardiana dei culi” Ho il mio passo da lumachina Perché come una lumachina mi porto dietro, sempre, tutto: la mia storia clinica, la enorme fatica con tutte le cause fisiche ( polmoni in alterne fortune, che poveretti devono sempre riprendersi da qualche sfiga capitata, ipoglicemie, muscolatura difficile da costruiree mantenere, cartilagini sfilacciate, tendini provati…) e paure frenanti. Ho uno zaino pesante che sulle spalle, ma soprattutto nella testa, un passo via l’altro, pesa, ma non è delegabile. Non esista sherpa in grado di alleggerire una testa, pompare aria, liberare l’anima
Ma vado, provo, mi fermo, sbuffo, sorrido come e quando posso, le parole le lascio fluire nella testa e lascio a riposo, se posso, le corde vocali
A volte mi dispero e mille e una volta vorrei fermarmi
Questa volta non mi sono fermata
Ho portato in vetta il mio donatore e il suo pensiero, così astratto e impalpabile, senza volto e senza nome come un vento a favore.
Una salita, se la guardi dal basso, è sempre una salita.
E un limite, da qualsiasi parte lo guardi, è pur sempre un limite. Da affrontare, da accettare, da superare.
Ma entrambi cambiano sapore, colore, intensità, grazie a fattori fuori e dentro di noi. Un pensiero demotivante, un cielo indeciso se far trapelare il sole dalle nuvole e in bilico tra un grigio accecante e una cappa opprimente, un respiro che non si sblocca come vorrei, rendono la salita infinita, ripidissima, accidentata e a tratti inaffrontabile. E il pensiero di doverla ripetere più e più volte, per ottenere un allenamento decente, blocca, frena, impaccia.
Ma poi
Il sorriso di una amica che mi aspetta
Non solo: sprona, e fa notare i metri fatti, più di quelli che ancora mancano.
È il cambio di prospettiva necessario, benedetto, è quello per cui sono grata e ciò di cui ho bisogno. Sicuramente ora, probabilmente sempre.