Scendere dalla montagna: A volte è proprio questo il problema. Invidio chi saltella sicuro su pietroni in discesa, senza bacchette, con fiducia, equilibrio e ginocchia flessibili. Io ho sempre sbugiardato anche in discesa le tabelle cai, impiegando anche lo stesso tempo della salita, facendo i conti con cartilagini dolenti, equilibri precari, stanchezza e perché no, voglia di godermi finalmente il panorama. Ma è difficile, tornare a valle. Anche dopo un percorso accidentato e faticoso, tornare nel grembo pratoso e sicuro del quotidiano non è nè scontato né rassicurante. Incastonarsi di nuovo in una normalità soffusa dopo gli strappi dell’ascesa, il sudore e soprattutto l’obiettivo, è estremamente faticoso. Bisogna saperci stare, in pianura. Perché in pianura ci sono milioni di possibilità mentre per salire bisogna solo camminare. O arrampicarsi. Ma la via è quella e la concentrazione è sulla fatica, o sul non sentirla. Lo sguardo è solo avanti. I gesti sono solo quelli. In discesa e in piano ci si può perdere. Ci si può distrarre, si dispone del tempo e spesso si spreca. Sopravvalutando noi e lui. Se il tempo in salita è un baratto, in discesa è un’indulgenza. Se in vetta avremo un panorama, a valle avremo un ritorno. Se in cima ci attende una pausa, a fine giornata avremo un termine. Bisogna essere capaci di scendere, di lasciare, di archiviare. Bisogna, mentre scendiamo, saper fabbricare il ricordo.
Ultimo allenamento Dal rifugio Pizzini al rifugio Casati, nella ( per me) sconosciuta Valtellina, a 3269mt, una terrazza direttamente sul maestoso ghiacciaio del Cevedale. 500 metri di fatica, dolore, difficoltà. Ma anche di vicinanza, accudimento, sconforto e finalmente, stremata, l’approdo al rifugio. Per la prima volta, invitata da una scivolata nelle mie scarpette inadatte ai numerosi nevai, ai guadi e alle rocce, ho pianto. Di fatica, di inadeguatezza, di gratitudine verso chi era lì ad aspettare il mio passo (come quasi sempre Rosy 😇e poi Marcello che ci ha raggiunto in corsa, che hanno assistito ogni metro)
Nella salita a braccetto con i limiti ho perso tanta bellezza. Sembrava che gli occhi incontrassero solo la neve che mi avrebbe bagnato i piedi, le rocce spigolose e troppo scure stagliarsi sul ghiacciaio immobile e in movimento, nei suoi rivoli furiosi.
Le trincee arrugginite e accumulate ai bordi degli ultimi metri di pietraia, finalmente inutili, ma lasciate a testimoniare un combattimento ben più aspro del mio, e che mi riportavano sangue e vite sacrificate un tempo infinitamente lontano, quando invece non potevo non pensare che le facce gentili dei giovani alpinisti diretti al Casati saranno state proprio identiche ai ragazzi tremanti di freddo e paura a difendere i confini nella prima guerra mondiale.
Oggi abbiamo una coppa per sentirci popolo unito e trionfante.
A me, che non sono migliore, basta sfidare il corpo e la mente ai limiti della sopportazione per fare tutto ciò che posso finché posso.
Nessuna guerra, nessun nemico.
Anche se sembra anche a me, a volte, di essere in pericolo imminente, quando il respiro manca e si guarda in su e si vede il sentiero tra le rocce, troppo verticale per la stanchezza che piega, troppo lungo ancora da inventarsi aria che non entra.
Ma poi si arriva. E il freddo del rifugio è comunque più caldo del vento che nei punti più esposti fa sentire nudi e instabili ma fa almeno alzare la resta, che guardare in basso è peggio e non è ancora il momento di festeggiare il percorso affrontato.
Si entra e il mio zaino si appoggia accanto a quello di Rosy, (che dentro ha la mia Bombola d’ossigeno, per emergenza, quasi 5 kg) e a quelli di tutti, fatti con più sapienza, che a me manca sempre qualcosa e tocca mendicare un fazzoletto, un guanto infilato troppo in basso, una bustina di miele in chissà quale tasca. Le scarpette senza ormai alcun grip e troppo basse per la salita staranno a cristallizzarsi di acqua sulle mensole accanto a scarponi pronti ad aggredire il ghiacciaio, domani mattina.
Un tè caldo, uno strudel e visi amici gridano che sei al sicuro. Il pianto non è più sconforto ma liberazione e gratitudine. È scherzare sui sacchetti domopack di Marcello in cui aveva accuratamente riposto il mio libro nello zaino e la frutta secca che sono diventati isolanti per i miei piedi fradici, e le altre fragili rocce che sono così fragili da aver pure raggiunto cima Solda, nel frattempo ed essere tornati giù per una meritata birra.
E poi la cena ultracalorica, la camerata da gita che assomigliava più alla stanzetta spoglia di padre Pio, e il giorno dopo, un’alba indispettita da una spolverata di neve, la discesa lenta, sotto un Gran Zebrù che non oserei mai nemmeno pensare di raggiungere ma che, immobile a beffarsi del mio goffo dimenarmi, accompagna pensieri finalmente leggeri, tutti di gratitudine per un altro spicchio di terra, di sole e di cielo attraversati per onorare il tutto di cui sono parte.
E pensavo guardaci adesso, Marco. Quanti sei riuscito a portare così tante volte in montagna.
Una salita, se la guardi dal basso, è sempre una salita.
E un limite, da qualsiasi parte lo guardi, è pur sempre un limite. Da affrontare, da accettare, da superare.
Ma entrambi cambiano sapore, colore, intensità, grazie a fattori fuori e dentro di noi. Un pensiero demotivante, un cielo indeciso se far trapelare il sole dalle nuvole e in bilico tra un grigio accecante e una cappa opprimente, un respiro che non si sblocca come vorrei, rendono la salita infinita, ripidissima, accidentata e a tratti inaffrontabile. E il pensiero di doverla ripetere più e più volte, per ottenere un allenamento decente, blocca, frena, impaccia.
Ma poi
Il sorriso di una amica che mi aspetta
Non solo: sprona, e fa notare i metri fatti, più di quelli che ancora mancano.
È il cambio di prospettiva necessario, benedetto, è quello per cui sono grata e ciò di cui ho bisogno. Sicuramente ora, probabilmente sempre.
Finalmente è uscito, nelle librerie e nelle piattaforme on line. S scriverlo è stato naturale perché non pensato e non creato per la pubblicazione, difficile è stato lasciarlo andare. Dentro c’è la parte di me che ho voluto prima negare poi nascondere, poi ho dovuto accogliere e infine amare.
Qui la quarta di copertina
Questo libro è un viaggio: un viaggio all’inseguimento di un respiro. La sua attesa, la conquista, poi ancora una rincorsa per riafferrare questa aria che sfugge, che manca e che torna, finalmente. Una scalata invisibile condotta tra malattia, trapianto, rigetto e una serie di rinascite fino alla scalata vera, oltre i 4000 metri, per celebrare la vita, e i suoi incontri. Un viaggio dentro e attorno a un’anima nuda, che si narra senza censure in un diario di cinque anni che nasce come blog privato e inaccessibile, e che ora viene pubblicato. Perché il dolore, l’ironia e il disincanto di questa fortissima vicenda umana siano di tutti e in cui, ognuno, possa ritrovare un pezzetto di sé. Un’alternanza di sofferenza, e leggerezza, poesia e fotografia di un quotidiano (stra)ordinario.