Come bandiere tibetane ostinate, che il vento rende allegre, o sfibrate e quasi irriconoscibili. Ma se i nodi sono saldi, se chi le ha affisse ha avuto cura e tenacia, resistono. A un certo punto, dopo mille danze al cielo, diventa difficile anche sciogliere i capi, saldi, ai lati. E se con fretta si taglia, si accoltella, si tira via, resterà comunque un pezzetto monco, deformato, ingrigito. Un ricordo di ciò che è stato, un’immagine che però si torna subito ad immaginare, inventando chi e come, un giorno, ha affidato le proprie preghiere.
Bandiere tibetane alla big bench del monte fosola, Carpineti, Reggio Emilia
Scendere dalla montagna: A volte è proprio questo il problema. Invidio chi saltella sicuro su pietroni in discesa, senza bacchette, con fiducia, equilibrio e ginocchia flessibili. Io ho sempre sbugiardato anche in discesa le tabelle cai, impiegando anche lo stesso tempo della salita, facendo i conti con cartilagini dolenti, equilibri precari, stanchezza e perché no, voglia di godermi finalmente il panorama. Ma è difficile, tornare a valle. Anche dopo un percorso accidentato e faticoso, tornare nel grembo pratoso e sicuro del quotidiano non è nè scontato né rassicurante. Incastonarsi di nuovo in una normalità soffusa dopo gli strappi dell’ascesa, il sudore e soprattutto l’obiettivo, è estremamente faticoso. Bisogna saperci stare, in pianura. Perché in pianura ci sono milioni di possibilità mentre per salire bisogna solo camminare. O arrampicarsi. Ma la via è quella e la concentrazione è sulla fatica, o sul non sentirla. Lo sguardo è solo avanti. I gesti sono solo quelli. In discesa e in piano ci si può perdere. Ci si può distrarre, si dispone del tempo e spesso si spreca. Sopravvalutando noi e lui. Se il tempo in salita è un baratto, in discesa è un’indulgenza. Se in vetta avremo un panorama, a valle avremo un ritorno. Se in cima ci attende una pausa, a fine giornata avremo un termine. Bisogna essere capaci di scendere, di lasciare, di archiviare. Bisogna, mentre scendiamo, saper fabbricare il ricordo.
Questo è quel momento dell’anno in cui l’italiano medio, categoria in cui milito orgogliosamente nonostante i miei gioiosi sprazzi ungheresi, si riconcilia con la vita. Pensa che il mondo in fondo non sia un posto poi così malvagio e lo fa davanti a un trappolone travestito da comfort: il buffet della colazione in albergo. Lo so, ne ho già scritto, ma io, anche a casa, comincio a pensare alla colazione appena metto la testa sul cuscino la sera prima. Mi sveglio mossa da una fame predatoria ed è una delle poche certezze che governano le mie giornate. È quel periodo dell’anno in cui l’italiano si convince a mangiare sano scaricando nel piatto (va detto, minuscolo, maledetti) 13 uova strapazzate e bacon fritto, ripromettendosi di replicare anche a casa, basta alzarsi dieci minuti prima. Ovviamente non lo farà mai. Se presente lo sventurato stagista dell’alberghiero, l’italiano medio, spesso rappresentato dalla crudele ed impaziente progenie, piatto in mano e occhi fissi sulla nutella, si tramuta nel peggior capitalista bianco e piantona il povero ragazzo alla postazione crepes e omelettes facendogli realizzare intrugli degni della tradizione culinaria tedesca più spinta.
tantohogiapagato
Attimi di smarrimento alla momentanea assenza dello speck. Sguardo accusatorio a me. Occhiata giudicante al piatto che traballa, sovrastimato per capacità di accoglienza, nella mia mano. Hanno ragione. Il cluedo culinario for dummies. Dovrei tatuarmi lungo tutto l’avanbraccio,in risposta alla proliferazione dei RESILIENZA, CORTISONE, 20mg. Ma otterrei gli stessi sguardi di riprovazione. O forse è la mia coscienza ammutolita con lo scotch da pacchi negli orari dei pasti a gridare. Inascoltata. Concludo con yogurt ( in montagna è obbligatorio testare ogni prodotto caseario, pur consci che provenga dai barattoloni da 1 kg del conad) innaffiandolo di semi, cereali ma quelli sani, granole bio, frutta secca anche quella direttamente planata dagli scaffali della coop. Però, dopo, Vale, quando avrai ingerito l’ultima fetta di pane nero coi semi che immagini a spalare scorie intestinali come in Siamo fatti così, sei motivata a smaltire. E allora, senza indugio: scarponi, bacchette e via, verso il pranzo.
Arriva sempre quel momento. In vacanza, in albergo, a cena fuori, per strada, a una sagra in cui la incontro. La famiglia pasta al tsugo. Ne resto incantata. La spio, cerco di ascoltarne i discorsi e ogni volta resto stupita e chissà, forse invidiosa di questa normalità. Parole che posso prevedere, ragionamenti snorkeling, stanchezza mista a felicità di essere in ferie tutti insieme. Due figli maschi, due anni, massimo tre di differenza. 6-8 7-10. Abbronzati, secchi. Iperattivi. Taglio di capelli da calciatore, facce da scugnizzi che non importa la regione di provenienza. Genitori con la pancia da tranquillità emotiva ed espressione da rimandiamo ogni pensiero il lavoro il mutuo, tua madre che, tuo fratello che… Intravvedo una complicità cementata dal passare dai 20 ai 40 anni insieme. Stessa compagnia, scherzi da animazione al matrimonio. Baacioo, baacioo. Brindisi incrociato. Come avete fatto finora? Vi siete accontentati? Siete stanchi? O per dire di non esserlo uscite ancora a cena a san Valentino? Quanto vi sentite responsabili di questi figli? Li avete voluti o sono capitati? Vi vedono mai litigare? Finiscono le frasi con ammamma o appapà e nessun cecchino che gli spari in fronte. Sono fortunati. Lo sanno? Ieri avranno perso la messa. Chissà se fanno dire le preghiere la sera, ai bambini. Chissà come hanno spiegato la guerra. Il figlio piccolo urla mamma 13 volte. Voi madri di maschi avrete occhi innamorati assicurati tutta la vita. Quanto a volte la genetica indiretta può essere benevola. La mamma sembra una che lascia le decisioni a lui. Che non critica. Accomodante. Vorrei esserlo anche io. Un po’ lo sono diventata ma del tipo fai come ti pare allora, non ascoltarmi, non del tipo si amò fai tu che sai come si fa. Credo sia più furba lei. O semplicemente ha ascoltato la mamma nella fine arte di adorare un marito. L’hai giurato aiddio di onorarlo. Ogni giorno. Ogni. Giorno. Mavi resterà analfabeta di queste lezioni di economia sentimentale. Dimmi come si fa, cara, ad abbracciare la vita e stare salda, immobile. Ma poi che ne so. Non si scruta la gente, Vale. Non si immaginano vite e clichè così, chi ti credi di essere? La famiglia goulash? La famiglia sushi? La famiglia guarda cosa c’è in frigo? Ho davanti i nipotini del carosello, più che dei prodotti social, genteperbene, che non è vero che non si fanno le grandi domande, forse nascono già sapendo le risposte, perché le hanno ascoltate, le hanno ripetute e le hanno imparate e ora le sanno tramandare. Io tramando dubbi, solchi, sogni ingenui, fuochi fatui. Ogni volta che torno a casa mi ripeto che la so fare anche io, la pasta al tsugo. È solo che non ho l’ingrediente segreto.
Continuo a voler tentare, a stare, letteralmente con tutte le forze che ho, sul ghiacciaio.
Non è una sfida, non e’ neppure una vetta da raggiungere. I più non capiscono. Chi te lo fa fare?
Mi chiedono. Non sanno o non possono capire che scatta, nella mente di una persona che davvero non sa come starà domani, la necessità di onorare i giorni, riempire di significato i passi e ampliare i respiri.
No, questa non è la storia muscolare di una sfida, è la narrazione di tante risate, perché credo sia il suono migliore per scacciare i ronzii dei ” non puoi”.
E poi. Ci sono giornate come questa. Che hanno la loro parte imperfetta: due ore di sonno, saturazione non brillante, nebbia, neve, vento, poco tempo a disposizione e il mio passo, ognuno conquistato. Ma se c’è una cosa che ho capito e che sto imparando è che la montagna è fatta sì, di vette, di meteo e di panorami. Ma è fatta soprattutto di persone. Quelle, davvero speciali, che decidono di legarsi con te. Rosy prossima alla beatificazione, ostinata come me nel capire la mia necessità di starci, su questo amatissimo ghiacciaio e di voler spostare ogni volta l’asticella. Federica, dottoressa dalla rara dote empatica che è riuscita ad andare oltre i numeri e a osservare, ascoltare e, ove possibile, assecondare.
Mi sono sentita protetta e accolta e la capacità di fare squadra ha creato una giornata difficile, per fatica e meteo ma divertente e, per me, fortemente motivante. Piergiorgio, la Guida Alpina, che mi ha fatto conquistare ogni singolo metro dei 500 fatti e di cui sono fierissima. Professionalità indiscussa, capacità di sintonia, pazienza ed entusiamo insieme. Ho imparato molte cose ieri: l’incontro tra le persone è sempre una scommessa. In cordata poi, sono importantissime l’armonia, la condivisione vera. Si condividono paesaggi unici, in cui tempo e spazio sono concetti svuotati e riempiti ogni volta di significati nuovi. Si è uniti da un obiettivo (anche se ieri la vetta non era un obiettivo ed è stato liberatorio ), dalle condizioni da affrontare insieme, dalla stessa passione e gratitudine per il solo fatto di essere lì. Grazie a voi. Ieri è stato il click per andare avanti. Per, e nonostante. Per favore, contituate a donare per la nostra spedizione Aido il prossimo 18 luglio.
Il mio passo, in montagna, è dettato dal mio respiro, è fatto dallo sguardo quasi sempre puntato alle rocce, ai piedi che mi precedono, con qualche pausa a testa alta, per essere inondata dalla luce e dell’orizzonte.
Il mio passo è fatto di gente che mi supera, quasi scusandosi, salvo poi voltarsi a guardare la mia fatica. Guardala adesso, la mia fatica, che è fatta di tutti i passi che mi hanno condotto fino qui, ma non è ancora abbastanza da togliermi la voglia di salire.
Il mio passo è fatto dalla pesantezza dei giorni ed è spinto dalle risate, degli stessi, identici giorni.
Il mio passo è fatto da un “insieme“, che in montagna è un concetto che si dilata e regala solitudine salvifica, consapevolezza e volontà, di adeguarsi o meno, al mio passo.
Il mio passo si trasforma in riflessione.
Anche questi pensieri ruvidi sono arrivati in salita, cadenzati con i conti che faccio ogni volta col mio respiro. I patti, i compromessi, i tradimenti.
Il mio passo lento, incerto, ostinato, osteggiato, riaffermato, tifato, tollerato, biasimato non lo cambierei, ora, con altri scarponi esperti.
Il mio passo è composto da piume e farfalle e voli leggeri e da massi inamovibili invisibili ai più.
Il mio passo soprattutto, restituisce.
Come una piccola onda generosa, quello che ho donato finora.