Se mi ritroverai alla fine della strada non sarà perché sono stata più veloce, no. Ma perché ho volato.
Per farmi ritrovare esattamente dove mi ero soffermata. Ti ho taciuto il mio superpotere perché non mi era mai servito con te, abbiamo sempre calpestato volentieri la terra.
E sai quanto amo camminare. Ma se posso volare, la mia mente riesce a farlo e credo anche la tua.
È la salvezza dei prigionieri e degli infermi e la sopravvivenza dei condannati.
I sogni non li governi, i passi li posso immaginare ancora con te.
È una domenica di maggio, è il 1984. Una di quelle che, appunto, si ricordano persino 38 anni dopo.
Mi rivedo da fuori, per qualche secondo. Il cielo è blu come quando il vento ha ripulito ogni residuo dentro e fuori, intenso, generoso, nel vicolo di casa mia, intorno alle 9, arriva una sventolata frizzantina che davanti al sole si farà timida e zitta ma che intanto sulle braccia pizzica e ti fa il solletico.
Ho 9 anni e sono contenta. Esco di casa prima dei miei per gironzolare li attorno mentre li aspetto. Indosso una gonna di cotone che mi arriva a metà polpaccio, fa un po’ la ruota e ha tre bande orizzontali: fucsia, blu e bianco. La maglietta bianca ha un pappagallo sgargiante e sornione che nel mio personale codice di eleganza da novenne ( ma sospetto, immutabile) è impeccabile.
Ho ancora una foto con Rolf alla reggia di Rivalta e sono vestita così perché era diventata la mia divisa da missione speciale. Mia madre l’aveva scelta con cura e mi aveva convinto mi stesse benissimo.
Ero uscita di casa saltellando: saremmo andati a prendere Giovanna e Camillo e avremmo aspettato i miei nonni e mia zia per andare a pranzo fuori. Era una festa. Ero felice, ero intoccabile. I miei in quella bolla di felicità e nervosismo di quando le cose devono andare bene per non scontentare tutti. Non la vedo, mia madre. Non ne ho bisogno So che è lì. Da sempre sento il suo sguardo su di me, mentre mi regala il lusso di poter essere spensierata, quando qualcuno veglia, guarda le spalle.
Mi guarda saltellare, mi intima di non cadere, ma c’è un attimo. Una frazione di espressione, che ho focalizzato solo oggi. È quell’attimo in cui vedi la tua bambina che sembra star bene, saltella, è felice. Sembra una bambina come tutte le altre. Di più È la tua bambina sensibile, quella che scrive le poesie, non è una cima in matematica ma scrive bene ed è simpatica.
E un flash ti attraversa le viscere. Cosa la aspetta? Cosa sarà costretta a vivere, tra qualche anno? Quanto dolore riuscirà a stridere con questa gonna perfettamente stirata? Quanta immobilità al posto dei balzelli a ritmo di lady oscar?
Non avrei mai pensato, prima del trapianto, di pubblicare foto come queste.
Ma ora che è tornato l’ossigeno, almeno durante l’allenamento, ho uno sguardo diverso. Che ho capito, è (quasi) l’unico che conta. Guardami adesso rivendicava una rinascita, un affrancamento proprio da questi odiati tubicini. Il fatto che io ora li veda come un mezzo per continuare ad allenarmi, e ne sia tutto sommato grata, lo devo a tutto ciò che è successo dopo il trapianto.
Lo devo a chi ha letto e apprezzato Guardami adesso scrivendomi un po’ della propria anima. Così come ho festeggiato il mio nuovo respiro, ora accolgo i suoi nuovi limiti, così nuovi eppure già conosciuti.
Non chiedetemi cosa è successo, non vi risponderò qui. Non perché improvvisamente presa da una ritrosia immotivata, ma perché so che ogni percorso è profondamente diverso e anche lo stesso nome, la stessa ferita patologica, su pazienti diversi si rimargina, o no, in modi diversissimi.
Io stessa ho sofferto di altre storie, altri epiloghi, forse senza mitivo che non fosse una profonda empatia, più che una pre – occupazione per il mio destino. Ringrazio chi capirà il senso di questo messaggio Chi non mi chiamerà guerriera. Chi continuerà a guardarmi per quella che sono, una scema nell’anima profondamente grata alla vita. Chi mi terrà vicino, anche a mezzo respiro. Che se non si espandono i polmoni il cuore se ne frega e si espande di più.
Ammettiamolo però: non è affatto facile. Non lo è per niente. Non è sempre resiliente, non propositivo. Essere attaccata a un guinzaglio o meglio a una fonte di vita per fare quasi ogni cosa è, credo, per la maggior parte delle persone, inimmaginabile. Però questa fonte di vita mi permette di essere qui e fare ancora qualcosa. Qualcosa di bello.
Se poi ci pensiamo bene abbiamo tante catene. Io nel momento in cui credevo di essere più libera ero legata al guizaglio dell’illusione. Attanagliata dal cappio dell’apparenza nella forma della dimostrazione anche agli altri, non solo a me stessa. Di quel guinzaglio mi sono liberata proprio grazie a questo. Qui ho deciso di mostrare la reazione, la possibilità. Ci sono anche la lagna, lo sconforto, la sconfitta, la delusione, lo smarrimento e un buio tanto buio che non si vede nemmeno fino in fondo. Soprattutto per risposte che non arrivano, o forse non ci sono.
Ma le sconfitte si somigliano tutte, per parafrasare male e capivolgere Tolstoj, mentre l’ ostinazione ha sempre una follia tutta sua.
Ma il passo resta lento, il fiato monta come in quota o quasi e resto a far di conto, io che non ne sono capace, con chilometri, dislivelli, ritmo, e ogni spettro che possa ballare intorno ai miei passi ostinati.
Se aumenta la difficoltà aumenterà la tenacia. Se le prospettive si accorciano allungheremo il piacere di ogni momento.
Quando si cammina immersi nei pensieri bui non è vero che per magia un orizzonte dalle sfumature glam scaccia via ogni macigno. Io, almeno, non ho mai vissuto l’incantesimo del respiro profondo sulla collina che fa scattare la perfetta armonia col cosmo.
Ma è come se il paesaggio si imprimesse delicatamente sull’anima. E torna il profilo di quell’unico albero su una collina lontana, la geometria perfetta e sbilenca dei campi arati.
Oggi ero sconfortata dalla mia lentezza. Poi qualcuno mi ha detto: scrivilo. Non è una resa, Continua a guardarti. Aveva ragione.
Non ho finito di camminare Non ho finito di scrivere
Il colore è diverso ma sei tu, ora opaca, inutile e abbandonata. La colpa è tua, e di un trattore.
Non mi ricordo quale dei due sia comparso prima nella mia vita di bambina a caccia di avventure. Ma ti riconosco ed ora mi fai tenerezza, così inservibile.
Inservibile come spesso mi sono sentita io, negli anni. Sempre troppo tardi però, ma ho capito quanto fosse una bugia, un enorme abbaglio.
È successo un pomeriggio, a Marina di Massa. L’estate del campeggio, quella della mia ripresa dopo un intervento, a sei anni. Con mamma, papà che veniva il fine settimana, Giovanna e Camillo, la mia seconda famiglia, e Rolf, il pastore tedesco che era il mio unico amico, avendo il pregio, forse l’unico, agli occhi di mia madre e il meno importante ai miei, di non essere portatore di raffreddori e influenze.
Il campeggio era un insolito bacino di amicizie e scorribande finalmente libere, per me. Ma quello che seguivo più spesso era pur sempre Camillo, che era solito ogni pomeriggio, verso le sei, fare un giro con la sua piccola barca.
Identica a questa: l’aveva trasportata sopra il tetto della sua vecchia macchina marrone. Un pomeriggio, dalla spiaggia, ha proposto di portare a pescare anche me e un bambino, di un paio di anni più grande, che spesso giocava con me. Io però non sono potuta salire.
Perché? “Perché sei una femmina Dai, sono cose da maschi.” Mi ha liquidata, corredato dalla faccia sorniona del bimbo improvvisamente antipatico. Credo di aver avuto una delusione, consapevole per quanto mi concedessero i miei ovattati sei anni. Consapevole e incomprensibile perché era una ragione che sfuggiva al mio seppur povero carnet di spiegazioni.
In realtà mia madre aveva semplicemente messo in atto la sua proverbiale ansia, immaginifica di cadute, annegamenti e scenari catastrofici che sharknado scansate. Ma questo lo avrei realizzato molti anni dopo. In quel momento mi sono sentita l’esclusa. La discriminata.
La stessa cosa è accaduta una mattina, poco tempo dopo, quando mio cugino andò a fare un giro sul trattore del suo amico Robertino, vicino di casa delle estati in Appennino, tra animali e colline da scendere sdraiati per far girare la testa.
Robertino era un supereroe e il suo potere più eclatante era, appunto, il trattore di famiglia. Successe ancora. Io correvo zampettante dietro questa figura mitologica che era mio cugino (che era quello che rubava gli accendini e le uova delle galline per cucinare DAVVERO con i miei pentolini di plastica, che ogni volta diventavano lava incandescente e assumevano forme irrimediabili, prima di deliziare i palati con le uova più bio e al contempo più cancerogene possibili) e arrivava un altro no, da quel trono altissimo e rumoroso.
La stessa spiegazione. Non “sei piccola”. Che era un fatto, certamente plausibile. “Sei una femmina”. Ancora ha riecheggiato l’inadeguatezza. Probabilmente è uno scenario comune alle bambine degli anni 80. La cosa buffa è che non sono ancora salita su una barca come quella, né su un trattore. Non ho ingaggiato battaglie per principio e raramente mi sono sentita discriminata. Né per essere donna né disabile. Ma resta, forse, il vestito dell’esclusa a prescindere, della diversa, dell’eccezione.
Oh si Signore Lo so bene che le persone scompaiono.
Così, da un giorno all’altro scivolano come sabbia tra le mani. L’ho visto molte volte, si. Ma sono anche un’inguaribile ottimista. E se sono appese a un filo, credo sempre che sia d’acciaio e la loro presa salda e tenace. Dice che me la racconto, Signore? Mi chiede se sia un alibi? O piuttosto una vigliaccheria? O se invece io sia tanto pessimiata da iniziare un lungo addio, e così proteggermi, allontanandomi dalla sofferenza?
Non lo so Signore. So che però le persone che ho perso mica se ne vanno. Spesso con loro ho conversazioni più interessanti rispetto ai vivi. La rabbia, dice? Il rimpianto? Li vede quei serbatoi?
Mi curo di rabboccare entrambi a scadenza più o meno fissa. Ma ho imparato a coprirli. Sa, gli insetti, gli odori stantii. Sono coperchi allegri, verniciati di rosso e di giallo. Spesso gli avventori non ne indivinano il contenuto.
Quello laggiù? Quel campo coltivato a risate dice? Beh si, è sterminato. E mi sono assicurata di avere la possibilità di espanderlo a piacere. Oh beh. Le persone che ho perso ci ballano con me, quasi a ogni tramonto. Perché lo sanno, che le celebro a sorrisi e non a pianti.
I pianti irrigano per un po’ ma poi il rischio è che la disperazione infesti tutto il campo ed è un attimo sa? Come dice? Lo stesso tempo che impiegano le persone a sparire?
Punti di vista, Signore. Il mio campo mi aspetta. È un lavoro senza sosta, coltivare i sorrisi e le risate. Non esistono stagioni di semina e di raccolta. È un ciclo continuo, incessante.
Faticoso? Impegnativo ma solo a volte. Ma la fase della selezione funziona bene. Anche se ogni tanto si inceppa. Sa, è manuale. Scarta subito le risate finte, le persone impostate, le frasi di circostanza finiscono in quel tubo là, il tritatutto. Ha altre domande, Signore? Perché in genere qua, come si dice, le domande (me) le faccio io e ci metto un po’ a trovare le risposte.
Alcune, li vede quei pagliai laggiù? Ecco, in alcuni devo ancora trovarle.
Grazie a Payrick e Simona che portano Guardamiadesso fino al rifugio Genova, sulle Alpi Marittime.
Voglio ancora ringraziare chi crede, soatiene e partecipa al progetto.
Perché Guardami adesso è questo, e basta. Non un’ associazione, tanto meno una società o una organizzazione gerarchica e rigida.
È un progetto. Ci autofinanziamo, e se organizziamo un trekking, un cammino o una impresa grande, per mezzi e obiettivi, come quella di Capanna Margherita, è stato, è, e sarà sempre, a totale scopo benefico verso gli enti che ogni volta scegliamo.
Per questo forse, non tutti restano. Per questo, forse, si deludono le aspettative di qualcuno. Eh, ma cosa ci guadagni? Mi chiedono spesso. Nulla: in termini puramente di profitto siamo tutti con le tasche alleggerite.
Ma, almeno parlo per me, alleggeriti appunto: leggeri. Ricchi di risate, di occhi pieni di meraviglia a panorami nuovi, che mai si poteva sperare di raggiungere. Ricchi di ” ce l’ho fatta “, di impegno che significa dare valore alle promesse, alla propria vita, al proprio, spesso complicato, passato.
Perciò, proprio perché un progetto getta, credo, luce verso il futuro, c’è posto per tutti. Utopisti, rinati, generosi di tempo e di vita, entusiasti.
Perché ognuno di noi credo, ha affrontato qualche angolo buio e ora abbia proprio voglia di dire: Guardami adesso.
Ultimo allenamento Dal rifugio Pizzini al rifugio Casati, nella ( per me) sconosciuta Valtellina, a 3269mt, una terrazza direttamente sul maestoso ghiacciaio del Cevedale. 500 metri di fatica, dolore, difficoltà. Ma anche di vicinanza, accudimento, sconforto e finalmente, stremata, l’approdo al rifugio. Per la prima volta, invitata da una scivolata nelle mie scarpette inadatte ai numerosi nevai, ai guadi e alle rocce, ho pianto. Di fatica, di inadeguatezza, di gratitudine verso chi era lì ad aspettare il mio passo (come quasi sempre Rosy 😇e poi Marcello che ci ha raggiunto in corsa, che hanno assistito ogni metro)
Nella salita a braccetto con i limiti ho perso tanta bellezza. Sembrava che gli occhi incontrassero solo la neve che mi avrebbe bagnato i piedi, le rocce spigolose e troppo scure stagliarsi sul ghiacciaio immobile e in movimento, nei suoi rivoli furiosi.
Le trincee arrugginite e accumulate ai bordi degli ultimi metri di pietraia, finalmente inutili, ma lasciate a testimoniare un combattimento ben più aspro del mio, e che mi riportavano sangue e vite sacrificate un tempo infinitamente lontano, quando invece non potevo non pensare che le facce gentili dei giovani alpinisti diretti al Casati saranno state proprio identiche ai ragazzi tremanti di freddo e paura a difendere i confini nella prima guerra mondiale.
Oggi abbiamo una coppa per sentirci popolo unito e trionfante.
A me, che non sono migliore, basta sfidare il corpo e la mente ai limiti della sopportazione per fare tutto ciò che posso finché posso.
Nessuna guerra, nessun nemico.
Anche se sembra anche a me, a volte, di essere in pericolo imminente, quando il respiro manca e si guarda in su e si vede il sentiero tra le rocce, troppo verticale per la stanchezza che piega, troppo lungo ancora da inventarsi aria che non entra.
Ma poi si arriva. E il freddo del rifugio è comunque più caldo del vento che nei punti più esposti fa sentire nudi e instabili ma fa almeno alzare la resta, che guardare in basso è peggio e non è ancora il momento di festeggiare il percorso affrontato.
Si entra e il mio zaino si appoggia accanto a quello di Rosy, (che dentro ha la mia Bombola d’ossigeno, per emergenza, quasi 5 kg) e a quelli di tutti, fatti con più sapienza, che a me manca sempre qualcosa e tocca mendicare un fazzoletto, un guanto infilato troppo in basso, una bustina di miele in chissà quale tasca. Le scarpette senza ormai alcun grip e troppo basse per la salita staranno a cristallizzarsi di acqua sulle mensole accanto a scarponi pronti ad aggredire il ghiacciaio, domani mattina.
Un tè caldo, uno strudel e visi amici gridano che sei al sicuro. Il pianto non è più sconforto ma liberazione e gratitudine. È scherzare sui sacchetti domopack di Marcello in cui aveva accuratamente riposto il mio libro nello zaino e la frutta secca che sono diventati isolanti per i miei piedi fradici, e le altre fragili rocce che sono così fragili da aver pure raggiunto cima Solda, nel frattempo ed essere tornati giù per una meritata birra.
E poi la cena ultracalorica, la camerata da gita che assomigliava più alla stanzetta spoglia di padre Pio, e il giorno dopo, un’alba indispettita da una spolverata di neve, la discesa lenta, sotto un Gran Zebrù che non oserei mai nemmeno pensare di raggiungere ma che, immobile a beffarsi del mio goffo dimenarmi, accompagna pensieri finalmente leggeri, tutti di gratitudine per un altro spicchio di terra, di sole e di cielo attraversati per onorare il tutto di cui sono parte.
E pensavo guardaci adesso, Marco. Quanti sei riuscito a portare così tante volte in montagna.