E allora sarà il cielo il mio alleato
Mentre rallento, quando mi fermo.
Sarà lui a cambiare ogni minuto per me, a far correre colori e nubi
Tra luce e ombra è uno stato delle anime che si abbracciano.



E allora sarà il cielo il mio alleato
Mentre rallento, quando mi fermo.
Sarà lui a cambiare ogni minuto per me, a far correre colori e nubi
Tra luce e ombra è uno stato delle anime che si abbracciano.
Sono tornata a valle.
Il ghiacciaio è un ricordo.
Ma il passo resta lento, il fiato monta come in quota o quasi e resto a far di conto, io che non ne sono capace, con chilometri, dislivelli, ritmo, e ogni spettro che possa ballare intorno ai miei passi ostinati.
Se aumenta la difficoltà aumenterà la tenacia.
Se le prospettive si accorciano allungheremo il piacere di ogni momento.
Quando si cammina immersi nei pensieri bui non è vero che per magia un orizzonte dalle sfumature glam scaccia via ogni macigno.
Io, almeno, non ho mai vissuto l’incantesimo del respiro profondo sulla collina che fa scattare la perfetta armonia col cosmo.
Ma è come se il paesaggio si imprimesse delicatamente sull’anima.
E torna il profilo di quell’unico albero su una collina lontana, la geometria perfetta e sbilenca dei campi arati.
Oggi ero sconfortata dalla mia lentezza.
Poi qualcuno mi ha detto: scrivilo.
Non è una resa,
Continua a guardarti.
Aveva ragione.
Non ho finito di camminare
Non ho finito di scrivere
Eccoti
Ti ritrovo esattamente 40 anni dopo.
Il colore è diverso ma sei tu, ora opaca, inutile e abbandonata.
La colpa è tua, e di un trattore.
Non mi ricordo quale dei due sia comparso prima nella mia vita di bambina a caccia di avventure.
Ma ti riconosco ed ora mi fai tenerezza, così inservibile.
Inservibile come spesso mi sono sentita io, negli anni. Sempre troppo tardi però, ma ho capito quanto fosse una bugia, un enorme abbaglio.
È successo un pomeriggio, a Marina di Massa.
L’estate del campeggio, quella della mia ripresa dopo un intervento, a sei anni.
Con mamma, papà che veniva il fine settimana, Giovanna e Camillo, la mia seconda famiglia, e Rolf, il pastore tedesco che era il mio unico amico, avendo il pregio, forse l’unico, agli occhi di mia madre e il meno importante ai miei, di non essere portatore di raffreddori e influenze.
Il campeggio era un insolito bacino di amicizie e scorribande finalmente libere, per me. Ma quello che seguivo più spesso era pur sempre Camillo, che era solito ogni pomeriggio, verso le sei, fare un giro con la sua piccola barca.
Identica a questa: l’aveva trasportata sopra il tetto della sua vecchia macchina marrone.
Un pomeriggio, dalla spiaggia, ha proposto di portare a pescare anche me e un bambino, di un paio di anni più grande, che spesso giocava con me.
Io però non sono potuta salire.
Perché?
“Perché sei una femmina
Dai, sono cose da maschi.” Mi ha liquidata, corredato dalla faccia sorniona del bimbo improvvisamente antipatico.
Credo di aver avuto una delusione, consapevole per quanto mi concedessero i miei ovattati sei anni.
Consapevole e incomprensibile perché era una ragione che sfuggiva al mio seppur povero carnet di spiegazioni.
In realtà mia madre aveva semplicemente messo in atto la sua proverbiale ansia, immaginifica di cadute, annegamenti e scenari catastrofici che sharknado scansate.
Ma questo lo avrei realizzato molti anni dopo. In quel momento mi sono sentita l’esclusa.
La discriminata.
La stessa cosa è accaduta una mattina, poco tempo dopo, quando mio cugino andò a fare un giro sul trattore del suo amico Robertino, vicino di casa delle estati in Appennino, tra animali e colline da scendere sdraiati per far girare la testa.
Robertino era un supereroe e il suo potere più eclatante era, appunto, il trattore di famiglia.
Successe ancora.
Io correvo zampettante dietro questa figura mitologica che era mio cugino (che era quello che rubava gli accendini e le uova delle galline per cucinare DAVVERO con i miei pentolini di plastica, che ogni volta diventavano lava incandescente e assumevano forme irrimediabili, prima di deliziare i palati con le uova più bio e al contempo più cancerogene possibili) e arrivava un altro no, da quel trono altissimo e rumoroso.
La stessa spiegazione.
Non “sei piccola”. Che era un fatto, certamente plausibile.
“Sei una femmina”.
Ancora ha riecheggiato l’inadeguatezza.
Probabilmente è uno scenario comune alle bambine degli anni 80.
La cosa buffa è che non sono ancora salita su una barca come quella, né su un trattore.
Non ho ingaggiato battaglie per principio e raramente mi sono sentita discriminata. Né per essere donna né disabile.
Ma resta, forse, il vestito dell’esclusa a prescindere, della diversa, dell’eccezione.
È finita.
Domenica si è concluso il progetto che mi ha tolto sonno, energie, pazienza e aspettative per mesi.
Il progetto che ha assorbito ogni cellula e che ha messo alla prova resistenza fisica e norale, amicizie, collaborazioni, tenuta psicologica.
Ma quanto mi ha dato.
Conferme e sorprese.
Come spesso ho detto, contituare a vole esserci ha significato grande consapevolezza: ogni passo è stata una faticosa conquista.
Mirko Dalle Mulle e Gabriel Zeni sono le Fragili rocce che hanno portato Aido sul twtto d’ Europa. Con la cordata dei supporters sono arrivati a Capanna.
Ma il mio inchino più umile e sentito, oltre a loro, va a tutte le fragili rocce che si sono allenate con sacrificio e passione e solo per uno sgarbo meteorologico non hanno raggiunto la vetta.
E a ben vedere, non è davvero importante.
Antonella Tegoni , Samantha Ciurluini hanno dimostrato una tenacia e una determinazione che potrebbero spostare le montagne.
Voglio ringraziare tutti.
In questa organizzazione difficile, a tante voci, che a volte ha pagato lo scotto dei malintesi, dei cali di entusiasmo, dei personalismi e della leggerezza ho scoperto le persone.
Curioso. Cerchi le montagne e scopri l’umanità più profonda e nuda che esista.
Un piacere e un onore collaborare ( perché nel volontariato giammai si debba usare il termine lavorare, alla faccia delle infinite riunioni zoom, mail, messaggi e vocali a volte all’ una di notte, altre alle 5 del mattino) con Francesca Boldreghini, direttore della comunicazione di Aido che ha sposato con entusiasmo il progetto e ha dedicato gran parte della sua essenza.
Rosy Cicero e Lory Prinno ormai con me nel progetto Guardami adesso da un anno.
Grandissima parte organizzativa e razionale di Rosy, senza di lei davvero l’impresa non avrebbe potuto essere. Anzitutto per molti allenamenti di noi #fragilirocce e per la scelta delle guide.
Alla mia, Davide Gallian, devo non solo il tentativo di domenica mattina, (siamo tornati indietro dopo poche centinaia di metri non solo per il mio passo ma per un dolore che anche post tachipirina era impossibile continuare a ignorare) ma anche la salita a Capanna Gnifetti.
Pur nella fatica e nella lentezza non mi sono mai sentita inadeguata, ma accolta e accompagnata con pazienza e ironia. E come mi ha confermato Mirko, sulla twrrazza della Gnifetti, ” per la prima volta un arrivo sorridente”.
Merito anche della meravigliosa dottoressa che ha avuto il coraggio di affiancarmi, Federica Muraca .
Chi mi conosce sa quanto io possa essere in sfida con i medici. Con Federica è stata una traversata di fiducia e comprensione. Ci siamo fidate entrambe e ne abbiamo tratto grandi risate e giornate che credo non dimenticheremo. Un po’ a rassicurarci ( lei con grande maestria a scacciare paure, io per contrattare passi in più e barattare respiri). E il saturimetro è diventato oggetto di utile collaborazione e non terreno di scontro.
Orgogliosa di avere in squadra anche Luigi Vanoni, e Aldo Savoldelli e Gianluigi Dorelli del CeRiSM di Rovereto, partner scientifico che ci ha “studiato”.
Avevamo più medici, soccorritori e bombole di ossigeno noi che in tutta la catena del Monte Rosa.
Grazie a Luca Colli che ha coordinato i soccorritori della croce Rossa insieme a Marco Shackleton Masserini.
Per scaramanzia ( ma mica tanto), emergenza e tranquillità di tutti, soprattutto di Madre😅 il mio corredo accanto a casco e imbrago era di ben 3 bombole di ossigeno da 5 kg, spesso negli zaini di Rosy, della guida, della mia dottoressa e di Francesco IlFra Ferretti che ringrazio per aver subito creduto nel progetto e aver portato un valore aggiunto importante. Un po’ in cordata con me, un po’ a supporto dei medici a controllo delle varie cordate dei fragili.
AIDO Regione Piemonte presente nella persona di Cristina, che ci ha seguito e supportato in questi giorni nel frullatore.
Grazie a Il Marco Minali e a Stefania, in supporto morale logistico ed emozionale da Alagna. Preziosi e rassicuranti, come tornare da mamma e papà. 😅
Questa mia salita, tutta questa enorme fatica la dedico certo, ai miei amori, alla mia cordata della vita, a Marco Menegus da cui parte tutto.
Ma questo è stato il mio addio al ghiacciaio. A questo amatissimo ghiacciaio sicuramente.
Quando sono, per la seconda volta, arrivata alla terrazza di Capanna gnifetti, dai pioli della scaletta che tanto, nelle foto, mi impressionava, ero felice.
Pochi minuti dopo dal cellulare scoprivo che Irene, a cui avrei fatto dedicare la vetta ( e a cui è dedicata, per quello che può valere), se ne era andata. A 13 anni, in attesa di due polmoni che l’avrebbero portata ovunque, probabilmente.
In quel momento, la sua incredibile mamma, in un pianto assurdo e surreale mi ha detto sai, Irene non voleva dirtelo ma diceva sempre : mamma ma cosa ci va a fare sul monte Rosa? Io quando avrò i polmoni voglio fare cose normali “.
Ecco. Siamo riuscite a ridere, su quella terrazza che considero la più bella del mondo e che grazie a te, angelo sfanculatore impertinente, mi ha mostrato la via delle cose normali.
A volte non basta una montagna di 4500 metri a farci sentire piccoli.
Presi dalle sfide con noi stessi.
Io per prima, inondata di supponenza travestita da umiltà a prender schiaffi di consapevolezza a ogni passo.
Sono state le tue parole Irene, dette con la fatica degli alti flussi che volevo dimenticare e cancellare con la fatica dell’aria sottile, a riportarmi alla realtà, a farmi, finalmente, sentire piccola. Piccolissima.
E allora Irene
Non ti dedico le mie vette mancate, le imprese.
Ti dedicherò le “cose normali”.
Come l’abbraccio stretto alla tua incredibile mamma, alta come una montagna, Barbara Billo Goldoni .
Il mio passo, in montagna, è dettato dal mio respiro, è fatto dallo sguardo quasi sempre puntato alle rocce, ai piedi che mi precedono, con qualche pausa a testa alta, per essere inondata dalla luce e dell’orizzonte.
Il mio passo è fatto di gente che mi supera, quasi scusandosi, salvo poi voltarsi a guardare la mia fatica.
Guardala adesso, la mia fatica, che è fatta di tutti i passi che mi hanno condotto fino qui, ma non è ancora abbastanza da togliermi la voglia di salire.
Il mio passo è fatto dalla pesantezza dei giorni ed è spinto dalle risate, degli stessi, identici giorni.
Il mio passo è fatto da un “insieme“, che in montagna è un concetto che si dilata e regala solitudine salvifica, consapevolezza e volontà, di adeguarsi o meno, al mio passo.
Il mio passo si trasforma in riflessione.
Anche questi pensieri ruvidi sono arrivati in salita, cadenzati con i conti che faccio ogni volta col mio respiro. I patti, i compromessi, i tradimenti.
Il mio passo lento, incerto, ostinato, osteggiato, riaffermato, tifato, tollerato, biasimato non lo cambierei, ora, con altri scarponi esperti.
Il mio passo è composto da piume e farfalle e voli leggeri e da massi inamovibili invisibili ai più.
Il mio passo soprattutto, restituisce.
Come una piccola onda generosa, quello che ho donato finora.
Povero l’amore che chiede.
Miserabile l’amore che pretende.
Una scelta è vera quando sei l’unica a crederci.
È evoluzione se non è appoggiata, sostenuta o capita.
È fede pura se chiamata ostinazione, autolesionismo, se irrisa o svalutata.
È una compagna di vita con cui soppesare sacrifici agli altri invisibili, spiegazioni che neppure verranno chieste o ascoltate, rinunce dolorose ma necessarie.
Una scelta che sa di solitudine è una vetta in costruzione, raggiungerla o meno è un passaggio secondario ed eventuale.
E la consapevolezza, soprattutto, è un’arma potentissima.
Solo che prima di tutto va rivolta contro se stessi.
Una salita, se la guardi dal basso, è sempre una salita.
E un limite, da qualsiasi parte lo guardi, è pur sempre un limite. Da affrontare, da accettare, da superare.
Ma entrambi cambiano sapore, colore, intensità, grazie a fattori fuori e dentro di noi. Un pensiero demotivante, un cielo indeciso se far trapelare il sole dalle nuvole e in bilico tra un grigio accecante e una cappa opprimente, un respiro che non si sblocca come vorrei, rendono la salita infinita, ripidissima, accidentata e a tratti inaffrontabile. E il pensiero di doverla ripetere più e più volte, per ottenere un allenamento decente, blocca, frena, impaccia.
Ma poi
Il sorriso di una amica che mi aspetta
Non solo: sprona, e fa notare i metri fatti, più di quelli che ancora mancano.
È il cambio di prospettiva necessario, benedetto, è quello per cui sono grata e ciò di cui ho bisogno. Sicuramente ora, probabilmente sempre.
Oggi, due anni fa, se ne andava Marco Menegus.
È stato per me uno strappo a un’ amicizia preziosa e necessaria, capace di far rialzare la testa nei momenti bui e di condividere conquiste e traguardi.
Spesso i traguardi di Marco erano vette raggiunte. La più importante, l’ultima, al Colle del Lys, sul massiccio del Monte Rosa, nell’aprile del 2018.
Salutarlo per l’ultima volta in terapia intensiva mi ha fatto conoscere il buio e allora, per ricordarlo, mi sembra doverosa una ricerca della luce.
Su, in alto, in vetta, per quanto considerata non alta, non difficoltosa, non impegnativa.
Ma ogni salita e ogni cima è una salita anche dentro se stessi.
E allora l’insegnamento che ne traggo oggi è sentire, più che vedere.
Sentire cinguettii senza vedere voli spettacolari, sentire la pace interiore anche in oeriodo caotico in cui tutto viene messo in discussione.
A te Marco, al volo muto degli uccelli, al loro canto invisibile
E così ci siamo finalmente ritrovate, la cordata di Guardami adesso pressoché al completo, decise a goddrci una giornata spettacolare per fare trek sul Reixa, godendo di panorami spettacolari e le solite nostre risate.
Quelle no, non sono mancate, e per fortuna, perché la giornata ci ha regalato temperature da novembre inoltrato, nebbie da profonda val padana, pioggia giusto per bagnare le roccette e testare equilibrio e attenzione.
Un ristoro a base di focaccia tutte insieme al bivacco del Passo della Gava e la rinuncia della vetta, tanto, come ripetevamo avvolte da nebbie fluttuanti grazie al vento, pitremmo essere ovunque.
Un patto rinnovato di amicizia e complicità, nuove vette da sognare e sfidare, nuovi grandiosi obiettivi che travicano confini prima regionali e poi chissà…le idee migliori arrivano in cammino, molto spesso, spalla contro spalla di un’amica.