Il mio passo


Il mio passo, in montagna, è dettato dal mio respiro, è fatto dallo sguardo quasi sempre puntato alle rocce, ai piedi che mi precedono, con qualche pausa a testa alta, per essere inondata dalla luce e dell’orizzonte.


Il mio passo è fatto di gente che mi supera, quasi scusandosi, salvo poi voltarsi a guardare la mia fatica.
Guardala adesso, la mia fatica, che è fatta di tutti i passi che mi hanno condotto fino qui, ma non è ancora abbastanza da togliermi la voglia di salire.


Il mio passo è fatto dalla pesantezza dei giorni ed è spinto dalle risate, degli stessi, identici giorni.


Il mio passo è fatto da un “insieme“, che in montagna è un concetto che si dilata e regala solitudine salvifica, consapevolezza e volontà, di adeguarsi o meno, al mio passo.


Il mio passo si trasforma in riflessione.

Anche questi pensieri ruvidi sono arrivati in salita, cadenzati con i conti che faccio ogni volta col mio respiro. I patti, i compromessi, i tradimenti.


Il mio passo lento, incerto, ostinato, osteggiato, riaffermato, tifato, tollerato, biasimato non lo cambierei, ora, con altri scarponi esperti.


Il mio passo è composto da piume e farfalle e voli leggeri e da massi inamovibili invisibili ai più.


Il mio passo soprattutto, restituisce.

Come una piccola onda generosa, quello che ho donato finora.

Un anniversario

Oggi, due anni fa, se ne andava Marco Menegus.

È stato per me uno strappo a un’ amicizia preziosa e necessaria, capace di far rialzare la testa nei momenti bui e di condividere conquiste e traguardi.

Spesso i traguardi di Marco erano vette raggiunte. La più importante, l’ultima, al Colle del Lys, sul massiccio del Monte Rosa, nell’aprile del 2018.

Salutarlo per l’ultima volta in terapia intensiva mi ha fatto conoscere il buio e allora, per ricordarlo, mi sembra doverosa una ricerca della luce.

Su, in alto, in vetta, per quanto considerata non alta, non difficoltosa, non impegnativa.

Ma ogni salita e ogni cima è una salita anche dentro se stessi.

E allora l’insegnamento che ne traggo oggi è sentire, più che vedere.

Sentire cinguettii senza vedere voli spettacolari, sentire la pace interiore anche in oeriodo caotico in cui tutto viene messo in discussione.

A te Marco, al volo muto degli uccelli, al loro canto invisibile