Assolveteci

Assolvete
Quelli che credono alle proprie bugie
Sorridete agli impulsivi, agli entusiasti, ai perduti, agli smarriti.
Deridete piuttosto i certi, biasimate i retti di facciata, allontanate i gentili per calcolo, i giusti per contratto.
Assolveteci, noi migranti in affanno indientro nello stormo,
Che ci perdiamo nel cielo, che ci attardiamo a farci illuminare da luci deboli o infuocate.
Tornate a prenderci o lasciateci alla corrente impietosa.
Il cinismo è già nelle nostre ali, sappiamo che uno sguardo può condannarci.
Ma guarderemo lo stesso dritti il sole, o un campo rigoglioso di vermi, un ballo di vento.
Seguiamo la rotta che possiamo, non quella che sappiamo.

Il libretto delle distruzioni

Come distruggere un amore:
Non fare nulla, un amore si costruisce e si distrugge da sè. Diffidare delle pozioni e delle ricette e dei consigli buoni per tutti e dei mantra e degli stratagemmi.
Un amore si trasforma, muta e fluttua come gli pare.
Resta o scappa, scivola dalle mani, parte, si aggancia a un lembo della gonna e si porta in giro, distrattamente, o con cura e stupore, come tenere un cucciolo in braccio.
Dipende dal vento.
Dipende sempre, dal vento.
Come si distrugge un’amicizia:
A colpi di aspettative, alimentate a soffiate di ego. A fucilate di critiche non dette, a botte di incomprensioni taciute.
Si distrugge, si bombarda, si disperde in milioni di pezzi.
Ma ne bastano solo due, di frammenti. Sopravvissuti, resistenti, per ricostruire una montagna.
Come distruggere se stessi:
Basta un niente.
Uno specchio sincero, onestà e memoria.
Perché tutti, tutti abbiamo ombre, errori, cattiverie, bassezze da imputarci e condannarci.
Ma poi, basta ascoltare. E sentire la promessa di gratitudine che abbiamo per essere qui.
Successivamente, utilizzare quello specchio per guardare nel profondo nelle nostre pupille.
Lo giuro, funziona.
Prima ci si perde nei contorni, poi si scoprono sorprese nei colori inaspettati delle nostre iridi.
È divertente.
In seguito, attendendo un minuto o due, ci si trova.
Sempre.
È spaventevole, si vorrebbe distogliere lo sguardo ma si resta incastonati lì, con sè.
È un cono che corre lungo il centro della terra e al contempo mare aperto. Terra e acqua insieme.
La profondità spaventa, fino a che non ci si scopre nuotatori.

Come bandiera al vento

Come certe relazioni umane.

Come bandiere tibetane ostinate, che il vento rende allegre, o sfibrate e quasi irriconoscibili.
Ma se i nodi sono saldi, se chi le ha affisse ha avuto cura e tenacia, resistono.
A un certo punto, dopo mille danze al cielo, diventa difficile anche sciogliere i capi, saldi, ai lati.
E se con fretta si taglia, si accoltella, si tira via, resterà comunque un pezzetto monco, deformato, ingrigito.
Un ricordo di ciò che è stato, un’immagine che però si torna subito ad immaginare, inventando chi e come, un giorno, ha affidato le proprie preghiere.

Bandiere tibetane alla big bench del monte fosola, Carpineti, Reggio Emilia

Gino

Non lo capisco molto bene, cosa mi sta succedendo.
Sono stanco. Sempre. Intorno a me vedo sempre nebbia, i contorni sono sfumati, guardo in giro e lo so, lo so dove devo andare, eppure mi ritrovo in posti che non ho mai visto.
Mi sembra di percorrere chilometri.
A volte mi cede una zampa. È sempre quella, la destra, dietro. Se sto fermo scivola piano verso l’altra, la devo sempre rimettere in asse ed è una fatica, ogni volta.
La mia cuccia è una certezza morbida, sotto la finestra, attaccata al termosifone. Spesso ho freddo. Quando vado in giardino sto al sole, ma le uscite sono brevi e fugaci e a volte mi ritrovo a contemplare la danza al vento di una foglia. Mi incanto. Ma poi il pensiero che sto pensando è già scappato e allora guardo chi è con me, alzando con molta fatica il collo, ma quello non capisce, come al solito.
E allora forse non era importante.
E allora da lontano, e dal profondo, raccolgo la forza e riparto, piano,con qualche scatto, a passeggiare.
Ho nostalgia, ma non so esattamente di cosa.
Forse di quando abbaiavo incessantemente ai passanti che intravvedevo dalla siepe, e tutti mi rispettavano.
Ora fuori il tono verso di me è cambiato, sento cantilene umane e qualcuno si azzarda perfino ad accarezzarmi.
Ma ancora ho qualche scatto, e ringhio, e difendo chi sono ancora, perbacco.
Sto bene in casa. Non ho mai apprezzato il tepore come ora. Gli inquilini sono sempre quelli.
La bionda ogni tanto sparisce, ma poi torna sempre. Lo sento, quando sta male. Le sto vicino, la controllo. Mi piacciono i grattini che fa, anche se preferivo quando dormivo nel lettone, su in camera. Ma tanto adesso non riuscirei a fare le scale.
Lui invece mi porta sempre fuori. Seguo le sue gambe, c’è un’antica alleanza tra noi. Ha sempre creduto di essere lui il capobranco, ma credo che in fondo sappia che sono io, ancora, il capo.
Poi c’è la ragazzina.
Ecco lei ha sempre lo stesso odore. Sa di biscotto, ma di quelli che mangiano loro.
Lei sì che è tanto cambiata. Non c’è sempre stata. Quando è arrivata era più piccola di me. Ricordo di averla odiata. Un po’.
Ma è sveglia, e dolce, e mi coccola e mi parla e quando scrive o legge e io dormo accanto, arriva sempre a grattarmi o accarezzarmi. Se non c’è ho una strana frenesia, la cerco, faccio chilometri per lei, dalla porta al giardino.
Dove può essere? Dove è andata?
Quando si siede sullo sgabello di fronte alle scale improvvisamente dalle sue mani escono suoni che sento sempre meno, ma che ricordo mi agitavano, rimbombava tutto e non erano né abbai né grida, né tonfi né clacson. Ora quando succede li sento lontani, ovattati, non credo siano un pericolo, a volte resto a cuccia, perché comunque alzarmi è una fatica e devo scegliere quando farlo.
A volte invece una forza da dentro, che non so spiegare, mi spinge senza pace. Quando aprono la porta guardo fuori. Mi piace l’aria che mi arriva improvvisa, la luce che mi rischiara tutto intorno, ma devo fare presto perché sta aperta per pochissimo tempo.
Mi sgridano, perché dicono che sto sempre in mezzo.
Ma le loro gambe ora sono dei riferimenti preziosi per i miei occhi velati. E poi magari mi danno qualcosa. Ho sempre tanta fame. A volte mi lanciano il biscotto ma chissà dove va a finire. Sono sempre più imbranati a lanciare perché ci metto tanto tempo a trovarlo.
A volte, non so perché, me lo lanciano fuori dalla porta. Poi mi portano a fare il giro del campo, ma quel gradino davanti alla porta, non capisco, è sempre più alto, ogni giorno lo alzano, ma perché?
So che sta arrivando il freddo e spero che la bionda non si metta in testa di infilarmi in un orrendo cappotto che mi impediva i movimenti.
Adesso riprovo il ringhio, si sa mai.

Scudo umano

Difendere il proprio significato. Questo faccio. Scudo umano delle mie esperienze respirate toccate sudate e depositate in anima e testa.
Issare la bandiera della propria identità un po’ sfilacciata dal vento, sbiadita, ospite del vento.
Faccio anche questo.
Perdonarsi l’umanità.
Farsi bastare l’amore,
Inventarselo dove non c’è.
Difenderlo e difendersene, in un tempo generoso e confuso, in un modo gentile e ruvido come un bramito di cervo.

Foto vezza d’oglio turismo, da Facebook

Sguardi

Sfocati, un po’ distratti, danzanti tra affanni quotidiani e smanie di cielo.
Decentrati, imperfetti, canzonati da ragazzini, mai risolti. Immobili nelle paludi di dubbi e mobili nelle tappe di vite non vissute.
Avrei tanto voluto che.
Non ho fatto in modo che.
Macerie o resti?
Archeologia o ecomostri?
Ma abbiamo l’anima antica che spinge gli occhi oltre il disincanto, adduce stupore bambino e silenzio fecondo di immagini tenute per sè, sbirciate, accennate, sfocate come noi.
Sguardi distratti, sguardami adesso,
Dentro e intorno, che siano nubi o stelle, che siano lampi o frecce.