Come distruggere un amore: Non fare nulla, un amore si costruisce e si distrugge da sè. Diffidare delle pozioni e delle ricette e dei consigli buoni per tutti e dei mantra e degli stratagemmi. Un amore si trasforma, muta e fluttua come gli pare. Resta o scappa, scivola dalle mani, parte, si aggancia a un lembo della gonna e si porta in giro, distrattamente, o con cura e stupore, come tenere un cucciolo in braccio. Dipende dal vento. Dipende sempre, dal vento. Come si distrugge un’amicizia: A colpi di aspettative, alimentate a soffiate di ego. A fucilate di critiche non dette, a botte di incomprensioni taciute. Si distrugge, si bombarda, si disperde in milioni di pezzi. Ma ne bastano solo due, di frammenti. Sopravvissuti, resistenti, per ricostruire una montagna. Come distruggere se stessi: Basta un niente. Uno specchio sincero, onestà e memoria. Perché tutti, tutti abbiamo ombre, errori, cattiverie, bassezze da imputarci e condannarci. Ma poi, basta ascoltare. E sentire la promessa di gratitudine che abbiamo per essere qui. Successivamente, utilizzare quello specchio per guardare nel profondo nelle nostre pupille. Lo giuro, funziona. Prima ci si perde nei contorni, poi si scoprono sorprese nei colori inaspettati delle nostre iridi. È divertente. In seguito, attendendo un minuto o due, ci si trova. Sempre. È spaventevole, si vorrebbe distogliere lo sguardo ma si resta incastonati lì, con sè. È un cono che corre lungo il centro della terra e al contempo mare aperto. Terra e acqua insieme. La profondità spaventa, fino a che non ci si scopre nuotatori.
Come bandiere tibetane ostinate, che il vento rende allegre, o sfibrate e quasi irriconoscibili. Ma se i nodi sono saldi, se chi le ha affisse ha avuto cura e tenacia, resistono. A un certo punto, dopo mille danze al cielo, diventa difficile anche sciogliere i capi, saldi, ai lati. E se con fretta si taglia, si accoltella, si tira via, resterà comunque un pezzetto monco, deformato, ingrigito. Un ricordo di ciò che è stato, un’immagine che però si torna subito ad immaginare, inventando chi e come, un giorno, ha affidato le proprie preghiere.
Bandiere tibetane alla big bench del monte fosola, Carpineti, Reggio Emilia
Ci sono persone che sono state per me come un piede di porco. Che detta così è brutta e approssimativa ma che davvero hanno scardinato una fortezza, faticosamente costruita negli anni.
Pareti solide di illusioni, autoconvinzioni, abitudini e paure. Poi ci sono le persone che sono il bottone slacciato dei pantaloni dopo aver mangiato le lasagne.
O quelle che sono la risata che scoppia se solo incroci lo sguardo, o il raggio di sole che filtra dalla fessura della tapparella e raggiunge proprio il tuo occhio addormentato. E pensi di voler dormire ancora ma poi realizzi che ti sta svegliando il sole, “in persona”.
Poi ci sono l’incastro perfetto della fronte di mia figlia, tra la mia fronte e l’inizio del mio naso.
Poi ci sono cappottini e pinco panco, poi ci sono amici e amiche che sono come la mia torta preferita, difficile da trovare e difficile da creare, raro equilibrio di aspro e dolce e morbido e croccante. E che non imparerò mai a replicare proprio perché non sarebbe che una imitazione farlocca.
Poi ci sono gli abbracci da dietro, e le indicazioni al cielo, che non avevo mai guardato così. Poi ci sono persone che sono come un pacchetto fazzoletti che sai di avere in borsa quando vai al cinema a vedere un film che sai già ti farà piangere tantissimo.
Ci sono persone che sono calamite. Persone come un regalo lasciato fuori dalla porta, o un bigliettino anonimo, che dice cose molto belle e un po’ demodè e alle quali hai bisogno di credere anche solo il tempo della lettura. Poi ci sono i vieni, siediti, ti preparo una tisana. Poi ci sono le persone dai molla lì e fammi parlare con la cretina che sei.
Poi ci sono le persone stormo, che sanno istintivamente dove andare e le persone branco, che sentono come stai senza parole, anche lontani, e stanno come te. Soprattutto se è un giorno di vento gelido.
E ora che sono tutte lontane, ma non tutte equidistanti si moltiplicano le mancanze e le certezze e i dubbi e le lacrime e i progetti ma soprattutto, sopra, tutto, la gratitudine.
Ultimo allenamento Dal rifugio Pizzini al rifugio Casati, nella ( per me) sconosciuta Valtellina, a 3269mt, una terrazza direttamente sul maestoso ghiacciaio del Cevedale. 500 metri di fatica, dolore, difficoltà. Ma anche di vicinanza, accudimento, sconforto e finalmente, stremata, l’approdo al rifugio. Per la prima volta, invitata da una scivolata nelle mie scarpette inadatte ai numerosi nevai, ai guadi e alle rocce, ho pianto. Di fatica, di inadeguatezza, di gratitudine verso chi era lì ad aspettare il mio passo (come quasi sempre Rosy 😇e poi Marcello che ci ha raggiunto in corsa, che hanno assistito ogni metro)
Nella salita a braccetto con i limiti ho perso tanta bellezza. Sembrava che gli occhi incontrassero solo la neve che mi avrebbe bagnato i piedi, le rocce spigolose e troppo scure stagliarsi sul ghiacciaio immobile e in movimento, nei suoi rivoli furiosi.
Le trincee arrugginite e accumulate ai bordi degli ultimi metri di pietraia, finalmente inutili, ma lasciate a testimoniare un combattimento ben più aspro del mio, e che mi riportavano sangue e vite sacrificate un tempo infinitamente lontano, quando invece non potevo non pensare che le facce gentili dei giovani alpinisti diretti al Casati saranno state proprio identiche ai ragazzi tremanti di freddo e paura a difendere i confini nella prima guerra mondiale.
Oggi abbiamo una coppa per sentirci popolo unito e trionfante.
A me, che non sono migliore, basta sfidare il corpo e la mente ai limiti della sopportazione per fare tutto ciò che posso finché posso.
Nessuna guerra, nessun nemico.
Anche se sembra anche a me, a volte, di essere in pericolo imminente, quando il respiro manca e si guarda in su e si vede il sentiero tra le rocce, troppo verticale per la stanchezza che piega, troppo lungo ancora da inventarsi aria che non entra.
Ma poi si arriva. E il freddo del rifugio è comunque più caldo del vento che nei punti più esposti fa sentire nudi e instabili ma fa almeno alzare la resta, che guardare in basso è peggio e non è ancora il momento di festeggiare il percorso affrontato.
Si entra e il mio zaino si appoggia accanto a quello di Rosy, (che dentro ha la mia Bombola d’ossigeno, per emergenza, quasi 5 kg) e a quelli di tutti, fatti con più sapienza, che a me manca sempre qualcosa e tocca mendicare un fazzoletto, un guanto infilato troppo in basso, una bustina di miele in chissà quale tasca. Le scarpette senza ormai alcun grip e troppo basse per la salita staranno a cristallizzarsi di acqua sulle mensole accanto a scarponi pronti ad aggredire il ghiacciaio, domani mattina.
Un tè caldo, uno strudel e visi amici gridano che sei al sicuro. Il pianto non è più sconforto ma liberazione e gratitudine. È scherzare sui sacchetti domopack di Marcello in cui aveva accuratamente riposto il mio libro nello zaino e la frutta secca che sono diventati isolanti per i miei piedi fradici, e le altre fragili rocce che sono così fragili da aver pure raggiunto cima Solda, nel frattempo ed essere tornati giù per una meritata birra.
E poi la cena ultracalorica, la camerata da gita che assomigliava più alla stanzetta spoglia di padre Pio, e il giorno dopo, un’alba indispettita da una spolverata di neve, la discesa lenta, sotto un Gran Zebrù che non oserei mai nemmeno pensare di raggiungere ma che, immobile a beffarsi del mio goffo dimenarmi, accompagna pensieri finalmente leggeri, tutti di gratitudine per un altro spicchio di terra, di sole e di cielo attraversati per onorare il tutto di cui sono parte.
E pensavo guardaci adesso, Marco. Quanti sei riuscito a portare così tante volte in montagna.
Continuo a voler tentare, a stare, letteralmente con tutte le forze che ho, sul ghiacciaio.
Non è una sfida, non e’ neppure una vetta da raggiungere. I più non capiscono. Chi te lo fa fare?
Mi chiedono. Non sanno o non possono capire che scatta, nella mente di una persona che davvero non sa come starà domani, la necessità di onorare i giorni, riempire di significato i passi e ampliare i respiri.
No, questa non è la storia muscolare di una sfida, è la narrazione di tante risate, perché credo sia il suono migliore per scacciare i ronzii dei ” non puoi”.
E poi. Ci sono giornate come questa. Che hanno la loro parte imperfetta: due ore di sonno, saturazione non brillante, nebbia, neve, vento, poco tempo a disposizione e il mio passo, ognuno conquistato. Ma se c’è una cosa che ho capito e che sto imparando è che la montagna è fatta sì, di vette, di meteo e di panorami. Ma è fatta soprattutto di persone. Quelle, davvero speciali, che decidono di legarsi con te. Rosy prossima alla beatificazione, ostinata come me nel capire la mia necessità di starci, su questo amatissimo ghiacciaio e di voler spostare ogni volta l’asticella. Federica, dottoressa dalla rara dote empatica che è riuscita ad andare oltre i numeri e a osservare, ascoltare e, ove possibile, assecondare.
Mi sono sentita protetta e accolta e la capacità di fare squadra ha creato una giornata difficile, per fatica e meteo ma divertente e, per me, fortemente motivante. Piergiorgio, la Guida Alpina, che mi ha fatto conquistare ogni singolo metro dei 500 fatti e di cui sono fierissima. Professionalità indiscussa, capacità di sintonia, pazienza ed entusiamo insieme. Ho imparato molte cose ieri: l’incontro tra le persone è sempre una scommessa. In cordata poi, sono importantissime l’armonia, la condivisione vera. Si condividono paesaggi unici, in cui tempo e spazio sono concetti svuotati e riempiti ogni volta di significati nuovi. Si è uniti da un obiettivo (anche se ieri la vetta non era un obiettivo ed è stato liberatorio ), dalle condizioni da affrontare insieme, dalla stessa passione e gratitudine per il solo fatto di essere lì. Grazie a voi. Ieri è stato il click per andare avanti. Per, e nonostante. Per favore, contituate a donare per la nostra spedizione Aido il prossimo 18 luglio.
Il mio passo, in montagna, è dettato dal mio respiro, è fatto dallo sguardo quasi sempre puntato alle rocce, ai piedi che mi precedono, con qualche pausa a testa alta, per essere inondata dalla luce e dell’orizzonte.
Il mio passo è fatto di gente che mi supera, quasi scusandosi, salvo poi voltarsi a guardare la mia fatica. Guardala adesso, la mia fatica, che è fatta di tutti i passi che mi hanno condotto fino qui, ma non è ancora abbastanza da togliermi la voglia di salire.
Il mio passo è fatto dalla pesantezza dei giorni ed è spinto dalle risate, degli stessi, identici giorni.
Il mio passo è fatto da un “insieme“, che in montagna è un concetto che si dilata e regala solitudine salvifica, consapevolezza e volontà, di adeguarsi o meno, al mio passo.
Il mio passo si trasforma in riflessione.
Anche questi pensieri ruvidi sono arrivati in salita, cadenzati con i conti che faccio ogni volta col mio respiro. I patti, i compromessi, i tradimenti.
Il mio passo lento, incerto, ostinato, osteggiato, riaffermato, tifato, tollerato, biasimato non lo cambierei, ora, con altri scarponi esperti.
Il mio passo è composto da piume e farfalle e voli leggeri e da massi inamovibili invisibili ai più.
Il mio passo soprattutto, restituisce.
Come una piccola onda generosa, quello che ho donato finora.
Una salita, se la guardi dal basso, è sempre una salita.
E un limite, da qualsiasi parte lo guardi, è pur sempre un limite. Da affrontare, da accettare, da superare.
Ma entrambi cambiano sapore, colore, intensità, grazie a fattori fuori e dentro di noi. Un pensiero demotivante, un cielo indeciso se far trapelare il sole dalle nuvole e in bilico tra un grigio accecante e una cappa opprimente, un respiro che non si sblocca come vorrei, rendono la salita infinita, ripidissima, accidentata e a tratti inaffrontabile. E il pensiero di doverla ripetere più e più volte, per ottenere un allenamento decente, blocca, frena, impaccia.
Ma poi
Il sorriso di una amica che mi aspetta
Non solo: sprona, e fa notare i metri fatti, più di quelli che ancora mancano.
È il cambio di prospettiva necessario, benedetto, è quello per cui sono grata e ciò di cui ho bisogno. Sicuramente ora, probabilmente sempre.
È stato per me uno strappo a un’ amicizia preziosa e necessaria, capace di far rialzare la testa nei momenti bui e di condividere conquiste e traguardi.
Spesso i traguardi di Marco erano vette raggiunte. La più importante, l’ultima, al Colle del Lys, sul massiccio del Monte Rosa, nell’aprile del 2018.
Salutarlo per l’ultima volta in terapia intensiva mi ha fatto conoscere il buio e allora, per ricordarlo, mi sembra doverosa una ricerca della luce.
Su, in alto, in vetta, per quanto considerata non alta, non difficoltosa, non impegnativa.
Ma ogni salita e ogni cima è una salita anche dentro se stessi.
E allora l’insegnamento che ne traggo oggi è sentire, più che vedere.
Sentire cinguettii senza vedere voli spettacolari, sentire la pace interiore anche in oeriodo caotico in cui tutto viene messo in discussione.
A te Marco, al volo muto degli uccelli, al loro canto invisibile
E così ci siamo finalmente ritrovate, la cordata di Guardami adesso pressoché al completo, decise a goddrci una giornata spettacolare per fare trek sul Reixa, godendo di panorami spettacolari e le solite nostre risate.
Quelle no, non sono mancate, e per fortuna, perché la giornata ci ha regalato temperature da novembre inoltrato, nebbie da profonda val padana, pioggia giusto per bagnare le roccette e testare equilibrio e attenzione.
Un ristoro a base di focaccia tutte insieme al bivacco del Passo della Gava e la rinuncia della vetta, tanto, come ripetevamo avvolte da nebbie fluttuanti grazie al vento, pitremmo essere ovunque.
Un patto rinnovato di amicizia e complicità, nuove vette da sognare e sfidare, nuovi grandiosi obiettivi che travicano confini prima regionali e poi chissà…le idee migliori arrivano in cammino, molto spesso, spalla contro spalla di un’amica.