Che noia Poetare indefessi Senza cura alcuna degli occhi e delle orecchie e dei cuori E in mazzi di giorni pescarne uno, a caso, e di quel giorno Ricordare un gesto muto, eterno. Aspettarne un altro La disperazione di scriverne E poi finire i giorni Eterni inascoltati
Non ho fretta, sai, di mandarti nel mondo. Ho avuto una incontenibile necessità di mostrartelo,spiegartelo, e ancor prima la egoica felicità che il mondo, finalmente, vedesse te. La tua bellezza, la tua unicità. Ma poi, più cresci, più di questo mondo vedo luoghi inospitali, pericoli e insidie su cui io stessa anni fa saltellavo sprezzante. Non la tua bellezza, non la tua unicità ti salveranno, anzi. Non le mie braccia mai abbastanza lunghe non il mio sguardo vigile ma inevitabilmente miope. Questo mondo è già più tuo che mio e resta la sensazione di far entrare un casa ospiti senza prima aver pulito, o non aver spiegato bene l’indirizzo. Ti immagino grande, ancora più grande e ancora più lontana ed è un sentimento che non trovo nel mio gonfio portafoglio di emozioni. Chissà magari i giapponesi o gli svedesi hanno coniato questa parola. Chissà magari la troverai nelle lingue che studi. Oppure troverai il suo significato contrario, mentre allontanandoti sicura, ondeggiando la tua chioma inconfondibile ti volterai un attimo, per salutarmi con un sorriso, solo perché saprai che lo starò aspettando.
Come distruggere un amore: Non fare nulla, un amore si costruisce e si distrugge da sè. Diffidare delle pozioni e delle ricette e dei consigli buoni per tutti e dei mantra e degli stratagemmi. Un amore si trasforma, muta e fluttua come gli pare. Resta o scappa, scivola dalle mani, parte, si aggancia a un lembo della gonna e si porta in giro, distrattamente, o con cura e stupore, come tenere un cucciolo in braccio. Dipende dal vento. Dipende sempre, dal vento. Come si distrugge un’amicizia: A colpi di aspettative, alimentate a soffiate di ego. A fucilate di critiche non dette, a botte di incomprensioni taciute. Si distrugge, si bombarda, si disperde in milioni di pezzi. Ma ne bastano solo due, di frammenti. Sopravvissuti, resistenti, per ricostruire una montagna. Come distruggere se stessi: Basta un niente. Uno specchio sincero, onestà e memoria. Perché tutti, tutti abbiamo ombre, errori, cattiverie, bassezze da imputarci e condannarci. Ma poi, basta ascoltare. E sentire la promessa di gratitudine che abbiamo per essere qui. Successivamente, utilizzare quello specchio per guardare nel profondo nelle nostre pupille. Lo giuro, funziona. Prima ci si perde nei contorni, poi si scoprono sorprese nei colori inaspettati delle nostre iridi. È divertente. In seguito, attendendo un minuto o due, ci si trova. Sempre. È spaventevole, si vorrebbe distogliere lo sguardo ma si resta incastonati lì, con sè. È un cono che corre lungo il centro della terra e al contempo mare aperto. Terra e acqua insieme. La profondità spaventa, fino a che non ci si scopre nuotatori.
I CASI UMANI (Spoiler: che appellativo di merda) Molti anni fa, quasi 16, per la precisione, per la prima volta apertamente, fui chiamata UN CASO UMANO. Per la prima volta de visu, ma chissà quante altre volte alle spalle, di sbieco, di dietro, sarà successo. Basta un dna leggermente sotto la media. Ma a pensarci bene, in generale, basta molto meno: un comportamento, una caratteristica, una sfortuna, il caso. (Sì lo so, il caso non esiste
(poivediamo)
A darmi l’abusato nomignolo fu nientemeno che la mia pneumologa di allora (spoiler 2: sì, poi ho cambiato centro di cura, dopo 33 anni), affacciata alla mia stanzetta di ospedale. Nello specifico mi stava raccontando che a lei, del team, toccavano sempre i casi umani da seguire, perché era quella con più esperienza (e, per eufemismo, con il distacco adeguato dall’aspetto trascurabile in una faccenda sanitaria: la vita del paziente). Era la primavera del 2007, io ero incinta di 3 mesi e con una polmonite bilaterale piuttosto grave —>caso umano ad honorem. Allora feci una mezza risata con l’aiuto dell’ossigeno e decisi che sì, ci poteva stare, l’importante era uscire da quella situazione. Ed eravamo in due stavolta, per giunta. Questa fuorviante premessa per dire che quando leggo di donne (98 % nella mia trascurabile statistica) che dal loro piedistallo (alcune ce l’hanno in dotazione sotto i piedini, è proprio di nascita, come il sangue reale) gridano strali contro i “casi umani” che hanno osato importunarle senza una valida dotazione psicofisicoeconomicosociale, mi sale un po’ il #guardatitu. Eh si perché anche tu sei un caso umano. Eh sì perché in una sola formuletta sdoganata da shakire che gridano di essere lupe (frustrate) sviliamo due concetti in uno. L’umanità e l’unicità. Possiamo essere feroci, e più siamo disconnessi più la ferocia si alimenta. Evito di fare la psicovalerocchia e mi fermo al linguaggio. E ora più che mai, che ogni tanto tento di dire la mia a un giovane orecchio distratto che si affaccia sul mondo mi rendo conto di quanto sia facile prendere per buoni slogan arrabbiati e ben collocati e quanto sartorialmente complesso costruirci su un pensiero a volte costellato di dubbi, condito di contraddizioni, sviato dalla lente deformante della cronaca del momento. Sappiate comunque che, se voleste scardinare la retorica del caso umano mi offro come cavia. Ciao caso umano! E mi volterò col sorriso. Perché sono umana, e accidenti se sono unica. (come tutti).
Non avendo molto di meglio da fare, ho deciso di accollare qui una serie di riflessioni galleggianti (Perché tanto tanto a fondo, qui e ora, non è possibile andare, e per scandagliare i meandri scuri non è che abbia poi tutti questi mezzi sofisticati). Che l’ossigeno è prezioso e preferisco da sempre consumarlo a ridere, che a stare in apnea. Ma insomma il fatto è che resto sempre più affascinata dalla malagestione delle parole, delle formule prefabbricate, che spesso diventano esse stesse pensieri, e quindi convinzioni e da lì conportamenti e infine modi di vivere. Catastrofica? Forse. Ma l’imperante e inglobante pigrizia di pensiero lascia tracce in tutti, tutti noi. E più siamo lontani dal tema a cui ci accostiamo (con tentata grazia o supponenza, sta in base alla sensibilità in dotazione), più ci appendiamo come scimmioni a liane già penzolanti, pronte per farci zompare da un ramo all’altro dello scibile, della società, del gossip, della vita. 《Ha dei problemi 》 Quante volte lo abbiamo sentito. Quante, detto. Quella ragazza /o ha dei problemi. Quante volte sarà stato detto di me. Questo sì, è un mio problema. Perché sentirlo mi fa l’effetto del gessetto sulla lavagna. La descrizione spicciola viene solitamente presa per buona come descrittiva (e spesso esaustiva, se il ricevente s’accontenta e non approfondisce per morbosa curiosità quali, esattamente, siano i problemi correlati). Generalmente trattasi di salute. Poi salute mentale. Oppure disagio sociale. Infine dipendenze. Dei -generico- problemi. E tu, che sentenzi, non ce li hai “IPROBLEMI”? Io sono piena pienissima di problemi, e la salute non sempre, fortunatamente, ha il primato. Ma no, io sono nata “coi problemi ” e “coi problemi ” ci muoio. La cosa buffa è che addirittura, dai noproblemspeople è addirittura considerata una formula gentile, che evita la descrizione della patologia e quindi, per tale generosa ( o sbrigativa) omissione, questo codice, questo gergo tra sani viene pure considerato, da loro, ovviamente, come una carineria, un non infierire, un ” ci siamo capiti”. Una ghettizzazione all’istante, come la botola di Gerry Scotti. Ha dei problemi e bum, giù nel girone dei diversi, dei poveretti, che infatti letteralmente spariscono agli occhi dei privilegiati, di quelli che il problemi sono cosa fare venerdì sera ( ma io sospetto che siano questi, i veri lockness, gli inesistenti, in fondo, che io di persone #senzaproblemi mica ne ho ancora incontrate). Anzi. Quelle coi problemi grossi così, spesso manco lo sanno, di avere problemi sulle, o alle spalle, o forse lo sanno ma sono un po’ miopi e ancora il problema gli si deve parare davanti. Oppure hanno imparato a fare una strategica supercazzola a destra e lo stanno schivando alla grande, o lo stanno gestendo e torre di controllo, per una volta è tutto ok. Godiamoci il volo. Insomma ve lo chiedo per favore. Per indicare, descrivere, parlare di una persona di cui sapete i fatti personali o anche di cui sia evidente una difficoltà, trovate modi creativi, alternativi. Ostinatamente. Scoprirete lati che non avevate mai notato. Regalerete tridimensionalità a un cartonato prestampato. E darete a voi stessi la possibilità di vedere il mondo da un’altra prospettiva. Vedrete che bellezza
E’ esistito un tempo in cui accadeva che la realtà mi trapassasse come una lancia. Questo attraversarmi lasciava briciole di materia scagliarsi intorno e crollare a terra, come pioggia di minuscole meteoriti incandescenti. Chi assisteva racconta di uno spettacolo tenero. Io ne ricordo il dolore incandescente, i buchi e il fumo e il nero e la puzza di carne che non sarà mai più. Ora ho scudi di cuoio per le parole, armature d’acciaio per le azioni e allarmi affinati per la malafede. Mi resta la capacità di un balzo se sfoderano spade o mal che vada, la sapienza antica di curare e coltivare cicatrici. Non escludo di lacerare armature e abbassare scudi. Capita che arrivi ancora qualche lancia e che non sia preparata a prevederla, o a schivarla o a pararla. E come conterranei in terra straniera, intercetto i trafitti, nella stessa lingua inventiamo parole balsamiche, con gli stessi gesti cuciamo e ricamiamo lembi di pelle e di cuoio. Lascio questo anno stanco come un mantello, costellato di strappi, con le sue macchie di sangue e di fango ma amorevolmente incorniciato, ed esposto nella stanza dei trofei. Lascio questo anno di morte e di vita come una tavola sparecchiata, disordinata, con avanzi di meteoriti e granelli di lucenti sorrisi. Briciole di risate cristalline, piccole pozzanghere di lacrime annidate nei calici, segni di unghie sulla tovaglia scomposta, tracce di basico godimento, di nutrimento gioioso, di bocconi amari. Lascio questo anno, che per convenzione umana sta terminando e mi tengo stretta il tempo, lo abbraccio e lo scaldo, lo coccolo come un neonato, mai stanca, pronta a una culla eterna e mi prometto: mai distratta. Vi auguro desideri. Immaginarli, riconoscerli e toccarli, prima di realizzarli. Infinitamente piccoli in questo universo, ma maestosi con se stessi.
Spiegatemi questo vento E io starò in silenzio ad ascoltare Trasparente sarà l’invasione dei sibili e della prepotenza muta dei lunghi soffi. Spiegatemi il capriccio della paura, dell’inaspettato che preda i giorni Delle grinfie macilente dell’ignoto dei cari. Del pensiero, tonfo lontano e fisso, inignorabile. Tum. tum. tum. Spiegatemi come spegnerlo E se fosse mai possibile o mai giusto farlo. Spiegatemi se sia conveniente camminare laddove sia meglio correre, se sia ridicolo saltellare se divietano di gioire. Spiegatemi le bandiere, i colori sconvenienti, le parole sbagliate, i pensieri sconci. Io intanto vivo.
Come bandiere tibetane ostinate, che il vento rende allegre, o sfibrate e quasi irriconoscibili. Ma se i nodi sono saldi, se chi le ha affisse ha avuto cura e tenacia, resistono. A un certo punto, dopo mille danze al cielo, diventa difficile anche sciogliere i capi, saldi, ai lati. E se con fretta si taglia, si accoltella, si tira via, resterà comunque un pezzetto monco, deformato, ingrigito. Un ricordo di ciò che è stato, un’immagine che però si torna subito ad immaginare, inventando chi e come, un giorno, ha affidato le proprie preghiere.
Bandiere tibetane alla big bench del monte fosola, Carpineti, Reggio Emilia
Non lo capisco molto bene, cosa mi sta succedendo. Sono stanco. Sempre. Intorno a me vedo sempre nebbia, i contorni sono sfumati, guardo in giro e lo so, lo so dove devo andare, eppure mi ritrovo in posti che non ho mai visto. Mi sembra di percorrere chilometri. A volte mi cede una zampa. È sempre quella, la destra, dietro. Se sto fermo scivola piano verso l’altra, la devo sempre rimettere in asse ed è una fatica, ogni volta. La mia cuccia è una certezza morbida, sotto la finestra, attaccata al termosifone. Spesso ho freddo. Quando vado in giardino sto al sole, ma le uscite sono brevi e fugaci e a volte mi ritrovo a contemplare la danza al vento di una foglia. Mi incanto. Ma poi il pensiero che sto pensando è già scappato e allora guardo chi è con me, alzando con molta fatica il collo, ma quello non capisce, come al solito. E allora forse non era importante. E allora da lontano, e dal profondo, raccolgo la forza e riparto, piano,con qualche scatto, a passeggiare. Ho nostalgia, ma non so esattamente di cosa. Forse di quando abbaiavo incessantemente ai passanti che intravvedevo dalla siepe, e tutti mi rispettavano. Ora fuori il tono verso di me è cambiato, sento cantilene umane e qualcuno si azzarda perfino ad accarezzarmi. Ma ancora ho qualche scatto, e ringhio, e difendo chi sono ancora, perbacco. Sto bene in casa. Non ho mai apprezzato il tepore come ora. Gli inquilini sono sempre quelli. La bionda ogni tanto sparisce, ma poi torna sempre. Lo sento, quando sta male. Le sto vicino, la controllo. Mi piacciono i grattini che fa, anche se preferivo quando dormivo nel lettone, su in camera. Ma tanto adesso non riuscirei a fare le scale. Lui invece mi porta sempre fuori. Seguo le sue gambe, c’è un’antica alleanza tra noi. Ha sempre creduto di essere lui il capobranco, ma credo che in fondo sappia che sono io, ancora, il capo. Poi c’è la ragazzina. Ecco lei ha sempre lo stesso odore. Sa di biscotto, ma di quelli che mangiano loro. Lei sì che è tanto cambiata. Non c’è sempre stata. Quando è arrivata era più piccola di me. Ricordo di averla odiata. Un po’. Ma è sveglia, e dolce, e mi coccola e mi parla e quando scrive o legge e io dormo accanto, arriva sempre a grattarmi o accarezzarmi. Se non c’è ho una strana frenesia, la cerco, faccio chilometri per lei, dalla porta al giardino. Dove può essere? Dove è andata? Quando si siede sullo sgabello di fronte alle scale improvvisamente dalle sue mani escono suoni che sento sempre meno, ma che ricordo mi agitavano, rimbombava tutto e non erano né abbai né grida, né tonfi né clacson. Ora quando succede li sento lontani, ovattati, non credo siano un pericolo, a volte resto a cuccia, perché comunque alzarmi è una fatica e devo scegliere quando farlo. A volte invece una forza da dentro, che non so spiegare, mi spinge senza pace. Quando aprono la porta guardo fuori. Mi piace l’aria che mi arriva improvvisa, la luce che mi rischiara tutto intorno, ma devo fare presto perché sta aperta per pochissimo tempo. Mi sgridano, perché dicono che sto sempre in mezzo. Ma le loro gambe ora sono dei riferimenti preziosi per i miei occhi velati. E poi magari mi danno qualcosa. Ho sempre tanta fame. A volte mi lanciano il biscotto ma chissà dove va a finire. Sono sempre più imbranati a lanciare perché ci metto tanto tempo a trovarlo. A volte, non so perché, me lo lanciano fuori dalla porta. Poi mi portano a fare il giro del campo, ma quel gradino davanti alla porta, non capisco, è sempre più alto, ogni giorno lo alzano, ma perché? So che sta arrivando il freddo e spero che la bionda non si metta in testa di infilarmi in un orrendo cappotto che mi impediva i movimenti. Adesso riprovo il ringhio, si sa mai.
Sono l’intoccabile, l’eviscerata. Cercata e rinnegata Elogiata in pubblico e ignorata, come donna di strada, cerco qui di esistere come sagoma di cartone a celare il sangue, le vene, la carne rattoppata. Lancio grida da altoparlanti muti, inseguo luci che altro non fanno se non creare ombre laddove una volta splendeva uno sguardo. Annaspo leggera in paludi di anemoni. Anonima, a scandire il mio nome ai distratti, ai fuggevoli, ai viaggiatori e agli stanziali crepati di rinunce. Evaporata, eppure dicono di avermi tra le mani. Sostanza. Densa che cerca di essere acqua. Piombo che sogna di essere glitter.