Mentre la dottoressa mi sciorina i possibili sipari che si apriranno sui miei polmoni post broncoscopia la mia mente corre sui ghiacciai del Rosa.
In testa ho una sola domanda ma è una domanda che non ha, non può avere, ora, risposte definitive. Non riuscirò mai ad arrivare a capanna Margherita?
<Avevi ragione tu.>, mi dice.< Se avessi visto le tue prove funzionali per me era tutto a posto. E invece hai richiesto una TAC e la tac dice altro: c’è una infiammazione. Rispetto a prima del vaccino la situazione è diversa: dobbiamo indagare>. Mi rassicura e stranamente riesce nell’impresa. Ma mai come oggi avrei preferito sbagliarmi
Lo sapevo. Ma il vaccino anti Covid l’ho fatto lo stesso. L’ho aspettato, l’ho chiesto, l’ho ottenuto. Nonostante lo scorso ottobre avessi ricavato una polmonite intersiziale post vaccini anti influenzale e anti pneumococco.
Ho sentito quattro specialisti, ho ragionato con le mie pneumologhe e infine ho scoperto il braccio con una fiducia da pioniere, con la sensazione di fare la cosa giusta, che è il respiro più ampio che tutti possiamo fare.
Ma giorno dopo giorno, dopo quella prima somministrazione di Pfizer, ho sentito che c’era qualcosa che non andava. Le prove spirometriche, ancora, reggono: ho la stessa funzionalità respiratoria di quando sono salita sul Balmenhorn, forse un paio di punti in più. Sotto sforzo non desaturo ancora troppo.
Eppure.
Eppure le rampe di scale stavano diventando impegnative. Un breve giro in bicicletta, in un pomeriggio incantevole, mi ha convinta a non dubitare più delle mie sensazioni. A non ascoltare chi mi dava dell’ansiosa, addirittura dell’ipocondriaca. Una reazione, evidentemente, c’è stata.
Ma se ho sempre portato a casa la pelle, finora, è perché sono corsa al pronto soccorso alla prima febbre, in passato, o, come ora, perché sento che il mio respiro non mi supporta più come prima e insisto per farmi visitare.
Per una come me, sentire di nuovo il respiro corto è come scoprire un tradimento. Uno spettro, un retropensiero che nello spezio di un respiro immobilizza tutto e ricaccia indietro all’ossigeno, all’immobilità, alla rinuncia di una parte di sé: quella dinamica, quella sana.
Perché vi racconto tutto questo?
Non per spaventare.
Non per essere strumentalizzata dai no vax. Al contrario.
Ho assunto il rischio: non esistono, dai dati inglesi e americani, già disponibili, casi come il mio. Nessuna dispnea, nessuna reazione rilevante in trapiantati, immunodepressi, affetti da fibrosi cistica, diabetici, bionde svampite come me.
Sono ufficialmente la Bridget Jones della pneumologia mondiale.
Ma grazie a questa infiammazione ho ottenuto indagini diagnostiche che non erano considerate necessarie fino a ieri, a cui spero di sottopormi il prima possibile, per intervenire e arginare un eventuale danno.
Il rischio zero non esiste mai. E ascoltarsi, e farsi ascoltare, è la base per prendersi cura di sé.
Certo ho paura. Non so ancora cosa dovrò affrontare e di certo mi aspettano dosi di cortisone che mi faranno, ancora, assomigliare a un kuokka. Ora che la mia faccia era appena tornata.
Ho ricevuto parole che m mi hanno allungato il respiro, tanti “ti aspetto” e “sono con te” che sono medaglie al valore preventive, di quella che si annuncia una battaglia. Quanto lunga e aspra, spero di poterlo raccontare qui, man mano.
Non sono pronta a ricavarne, ancora una volta, un insegnamento. Sono delusa, arrabbiata e impaurita.
Sono nella fase dello smarrimento, ma una cosa la so: non ho ancora rinunciato ai progetti che stavo, che sto mettendo in calendario.
E se non potrò dire Guardami adesso dirò Adesso vi guardo io, e vi aspetterò alla fine dei cammini. O al rifugio, per accogliere i racconti delle vostre vette.
Perché sarò sempre capace di fare almeno tre cose: ridere, chiacchierare e bere un Negroni.

nella foto: in salita